La tribù che racconta storie – Gottschall e l’analisi evolutiva delle serie tv (Venerdì di Repubblica) | Daniele Rielli

La tribù che racconta storie – Gottschall e l’analisi evolutiva delle serie tv (Venerdì di Repubblica)

  • 2 marzo 2015

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(il miglior personaggio negativo di serie tv mentre guarda una serie tv)

Intervista a Jonathan Gottschall –  pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 27.2.2015

Pittsburgh. Nel racconto le “Api, parte prima” lo scrittore bosniaco Aleksandar Hemon racconta di come, durante la sua infanzia nella Iugoslavia di Tito, suo padre avesse trascinato tutta la famiglia fuori da una sala cinematografica in cui veniva proiettato un film di avventura,  all’urlo di “che stupidata” e “compagni non credeteci”

Ripenso a questa scena camminando per una Pittsburgh ventosa e gelata verso il bar in cui ho un appuntamento con Jonathan Gottschall, autore di “L’istinto di narrare”, un saggio sul legame inscindibile che corre fra gli esseri umani e la capacità di raccontare storie.  Secondo Gottschall persino un “iperrealista” come il padre di Hemon subiva il fascino delle storie di finzione, probabilmente però in ambiti in cui non ne aveva l’esatta percezione. In questo non era solo visto che lo stesso accade ogni giorno a tutti noi, basti pensare che, secondo recenti studi, sognare a occhi aperti è lo stato di default della mente e passiamo la metà delle nostre ore di veglia elaborando fantasie, il più delle volte brevi, essendo la loro durata media 14 secondi. Inoltre consumiamo continuamente storie prodotte da altri, attraverso ogni tipo di media,  e tutto questo non accade per caso.

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(l’edizione italiana di “the storytelling animal” di Jonathan Gottschall)

“All’inizio del libro parlo di due ipotetiche tribù ancestrali: quella della pratica e quella delle storie. Quella della pratica non faceva altro che lavorare, quella delle storie invece alternava le sue attività, all’usanza di raccontare storie immaginarie. Contrariamente ad ogni aspettativa, quella che è sopravvissuta è la seconda. Quella tribù siamo noi” mi spiega Gottschall versando birra light da una caraffa gigantesca. Il locale si è rivelato essere uno sports bar per studenti di college, pieno di televisori sintonizzati su eventi sportivi. Tra poco inizierà la partita dei Pittsburgh Penguins, la squadra di hockey della città, lo so perché nell’ ascensore dell’albergo ho incontrato un tizio vestito da pinguino.

Lo sport è in grado di suscitare forte immedesimazione e il modo di raccontarlo dei media americani, che va molto oltre il “Dovremo dare il 110% e il mister deciderà cos’è meglio” a cui siamo tristemente abituati in Italia,  aiuta a trasformare i campionati professionistici in una miriade di storie affascinanti con archi narrativi, svolte, ostacoli, momenti epici. È stato quest’approccio che negli ultimi anni ha fatto aumentare, e di molto, il pubblico femminile delle leghe professionistiche americane. Le storie infatti interessano a tutti.  Ma lo sport non è l’unico legame che l’atto del giocare ha con le storie “La prima forma di proto-narrazione, quella di cui sono capaci anche molti animali” spiega Gottschall “è la pratica di fingersi qualcos’altro, e ciò ha una funzione strettamente evolutiva, serve ad avvicinarsi gradualmente ai problemi e ai pericoli, entrarci in confidenza, imparare a superarli e poi esorcizzarli. Le storie assolvono la stessa funzione per gli adulti, ma essendo strutture complesse hanno molti usi potenziali. Nel libro uso l’esempio della mano, che può essere uno strumento per aggredire, mangiare, comunicare, amare. Le storie funzionano allo stesso modo, servono a molti fini, come ad esempio portare le persone nel mezzo delle informazioni che si vogliono comunicare, rendendole così più interessanti e più facili da ricordare. Detto questo credo che il fattore evolutivo più importante sia comunque sempre il variegato rapporto che le storie intrattengono con il male, fornendoci la capacità di rapportarci ad esso e conseguentemente un posto nel mondo”.

Dai Sopranos in poi si è affermato, prima nelle produzioni americane e poi in quelle di  altri paesi, un nuovo tipo di serialità televisiva la cui caratteristica dominante è un elevato grado di realismo e protagonisti negativi, i cosiddetti anti-eroi. Non dei “nemici” ma dei veri e propri protagonisti che compiono spesso cose tremende. Chiedo a Gottschall se questo aumentare della dose di male tollerato nelle grandi narrazioni popolari serva a esorcizzare una crescente sofferenza, e a questo proposito non ha molti dubbi “No, non credo. Di anti-eroi le storie sono piene da sempre, basta pensare a Lucifero o a Macbeth. Ma ammettiamo pure per un momento che ci sia un picco di anti-eroi in questo momento storico. Personalmente sono affascinato da queste narrazioni perché se le osservi attentamente, ti accorgi che l’universo morale rimane lo stesso di tutte quelle precedenti. Tony Soprano ad esempio è un personaggio affascinante e cattivo ma alla fine paga per questo, e tutto si ricompone”.

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(Gli Shelby, brava gente)

C’è una serie, prodotta da Bbc e trasmessa in America da Netflix che sta impegnano le riflessioni di Gottschall.  È Peaky Blinders, un piccolo capolavoro scritto da Steven Knight, che narra la vorticosa e spietata ascesa sociale di una gang di allibratori di Birmingham nel primo dopoguerra. “Thomas Shelby, il protagonista, è uno dei personaggi principali più feroci mai visti sullo schermo, eppure è difficile non empatizzare con lui. Ci sto riflettendo in questo periodo e la spiegazione che mi sono dato fino a questo momento è che il personaggio funziona perché per quanto cattivo quelli attorno a lui sono anche peggio, e in genere se compie atti apparentemente ingiustificabili come uccidere un innocente è sempre per effetto di un ricatto”.

Si muovono i confini, il buono e il cattivo si scambiano i ruoli, tutto diventa meno netto, più simile, cioè, alla realtà, ma l’equilibrio morale complessivo della storia non cambia davvero. In questa concezione delle storie è difficile non pensare che ci sia profondo retaggio americano, Gottschall però non è d’accordo “Ho studiato storie di provenienti da molte culture diverse, non solo da quella americana, e il risultato è sempre lo stesso, le grandi narrazioni se analizzate in profondità hanno sempre alla base una forte idea di bene e di male”. La sua tesi è che su questo si fondi la loro funzione evolutiva, sulla capacità, cioè, di delineare un mondo morale, distinguere il giusto dallo sbagliato, funzione necessaria alla prosecuzione della specie. Ma se le storie servono a dare i contorni alla verità quali sono i rischi in mondo in cui siamo raggiunti ogni giorno da decine se non centinaia di microstorie su telefoni, computer, televisori e altri apparecchi?

“Effettivamente non c’è mai stata una simile abbondanza di storie. Basta accendere un computer e ne hai quante ne vuoi, gratis, immediatamente. Non sono mai state così a buon mercato. Al tempo stesso le storie ben narrate sono in grado di alterare i giudizi, i politici e le aziende sono sempre più consci di questa potenzialità. Uno dei rischi quindi è sicuramente quello della manipolazione” Ma non è il solo, c’è un punto nel finale del suo libro in cui Gottschall riflette sul futuro delle storie applicate al gaming e coltiva il dubbio che forse, sì, il romanzo è morto ma al tempo stesso non lo sono le storie che saranno sempre più integrate dentro dispositivi di realtà virtuale. “In questo c’è ovviamente un altro tipo di rischio. Basta pensare al ponte-ologrammi di Star Trek the next generation: quella storia è un’utopia quindi i protagonisti a un certo punto escono dalla realtà virtuale e tornano alla loro vita, ma nella realtà chi lo farebbe davvero? Chi, potendo fare quello che vuole in un mondo immaginario, sceglierebbe di andare a lavorare da Burger King?”. Nonostante l’inscindibile legame fra vita umana e storie, è bene infatti ricordare che si tratta di due cose bene diverse “La storia è una struttura che rimodella elementi della vita in un insieme dotato di senso, cosa che spesso non di può dire della vita ”.Esattamente quello che sosteneva Truman Capote quando diceva che  “La differenza tra realtà e finzione è che la finzione deve essere coerente”. Forse era questo quello che il padre di Hemon non riusciva a sopportare.