In questo momento nessuna serie tv fonde realtà e finizione meglio di Succession, il prodotto di punta di Hbo la cui terza stagione si è appena conclusa con due puntate girate interamente in Italia, fra Toscana, Milano e Lago di Como. Nata dalla penna di Jesse Armstrong la serie racconta le vicende di una famiglia – i Roy – a capo di uno dei più grandi gruppi mediatici del mondo, un clan pensato, almeno inizialmente, per assomigliare a quello dei Murdoch. Come nel caso dei Murdoch l’impero è globale, c’è un figlio di primo letto praticamente estraneo al business (nella serie è Connor, un anarco capitalista non dei più brillanti) e tre figli di secondo letto chiamati a contendersi il business del padre.
Le analogie non si fermano qui: Waystar-Royco, il gruppo dei Roy, possiede l’ATN, un canale d’informazione conservatore che assomiglia a Fox News, compra Vaulter, un’azienda digital che ricorda Vice, e viene coinvolta in uno scandalo che sembra alla lontana quello delle intercettazioni che coinvolse i Murdoch in Inghilterra. Elementi caratteriali e cenni biografici dei Murdoch si ritrovano anche nei singoli personaggi di Succession, mischiati però a cose inventate o prese dai membri di altre grandi famiglie del mondo dei media. Sappiamo che Elisabeth Murdoch è una fan dello show, così come lo è Jerry Hall, la quarta moglie di Rupert, il che è rilevante specie se si considera che non si tratta in alcun modo di una serie agiografica.
Ogni cosa in Succession è studiata al millimetro, esistono pagine Instagram che censiscono ogni singolo capo d’abbigliamento o accessorio che appaia nella serie, sono studiati persino gli sfondi degli iPhone dei protagonisti anche se in video appaiono solo per una frazione di secondo, così come ci si può fare qualche risata mettendo il fermo immagine e guardando i sottopancia dei servizi ATN che appaiono sui televisori sullo sfondo di alcune scene. Al di là degli easter eggs per i maniaci, lungo le sue tre stagioni la serie ha creato tutta una serie di stilemi che contribuiscono alla sua immediata riconoscibilità. Prima di tutti il grande sfoggio di aerei, elicotteri e yacht privati grandi come navi da crociera. I mezzi produttivi di Succession sono faraonici ma, seppur centrali alla ricostruzione della vita di una famiglia di miliardari, da soli non basterebbero: è la cura nella psicologica dei personaggi ciò che rende Succession il miglior show televisivo del momento.
Il padre, Logan Roy, è l’uomo che ha costruito l’impero; ormai ottantenne e con una salute malferma deve nominare un successore. Uomo spregiudicato, straordinariamente abile nelle trattative, nelle politiche di acquisizione e nei rapporti con la politica, Logan è tutt’altro che stupido ma non riesce a farsi una ragione delle diverse fragilità dei suoi figli, né a instaurare con loro un rapporto funzionale. Tolto “l’idiota” Connor, i tre figli papabili per la successione hanno tutti problemi apparentemente insormontabili: il maggiore, Kendall, ha studiato a lungo la materia ma ha avuto anche problemi con le droghe e, più rilevante, manca di killer instinct e forse anche di lungimiranza imprenditoriale. Kendall è anche il re incontrastato di un sentimento contemporaneo il più delle volte evocato a casaccio ma che nel suo caso è invece perfettamente adeguato: il cringe, ovvero lo stato d’animo che evoca colui che non coglie la sua inadeguatezza o si produce in comportamenti che non hanno alcun senso in un determinato contesto, come mosso da un segreto desiderio di auto-umiliazione.
Il secondo figlio è Roman, tagliente come uno stand up comedian e probabilmente il più intelligente dei tre dal punto di vista del business, è però anche quello che un tempo si sarebbe definito “un degenerato”: onanista compulsivo, è molto attratto dalle donne più anziane con cui lavora e per nulla da quelle più giovani che frequenta. Per quanto basti sempre molto poco per liberarsi di lui, di questi tempi Roman è una specie di bomba sul punto di esplodere e vive protetto da un cordone sanitario di costosi NDA (accordi di riservatezza) che gli avvocati di famiglia fanno firmare alla persona di turno. Ha inoltre un gigantesco complesso di inferiorità verso il padre che non gli permette di confrontarlo direttamente.
Non va meglio con Shiv, la figlia femmina è un coacervo di contraddizioni persino peggiore dei fratelli. Inizia la serie lavorando come stratega per dei politici democratici che vedono suo padre come Satana, Shiv pensa di essere molto più intelligente di quello che realmente è, ha un marito-trofeo che tradisce e tratta come uno schiavo castrato. Rispetto ai fratelli manca anche di capacità di analisi perché è accecata da un moralismo woke che le impedisce di vedere la realtà delle cose, ma, per sua sfortuna, non le impedisce di credere di averle capite meglio di tutti, il che la conduce regolarmente a risultati disastrosi.
La successione al trono avviene in un periodo in cui l’espansione durata decenni della Waystar-Royco si è fermata per via del successo sul mercato delle aziende tech che rubano ai media tradizionali gli “eyeballs”, ovvero le paia d’occhi, il tempo d’attenzione: l’oro della contemporaneità. Insomma i figli si fanno la guerra per prendere il controllo di una nave che sta rapidamente affondando. Posizionandosi in un punto decisamente strategico della storia – quello del passaggio dalla società della tv e dei giornali a quello del digitale e delle piattaforme – Succession racconta una crisi che tolti i gli aerei privati, le ville e gli altri lussi, assomiglia a qualcosa di cui molti hanno fatto o stanno facendo esperienza: il rallentamento complessivo dell’Occidente, la brusca riduzione delle aspettative, una lampante iniquità generazionale, seppur vissuta generalmente nel confort.
Succession tuttavia non è una serie moralista o di denuncia è qualcosa di più simile a un dramma shakespeariano declinato nella modernità e con frequenti incursioni nella dark comedy. Che il tono della serie sia complesso e articolato si capisce anche dai pareri degli attori: secondo Kieran Culink (Roman Roy) è una commedia, secondo Jeremy Strong (Kendall Roy) è un dramma. La verità è che hanno ragione entrambi e l’abilità di Jesse Armstrong e della sua writer’s room nel far convivere armoniosamente i generi senza scivolare nel grottesco ha dell’impressionante.
La modernità di Succession non sta però solo in questo compenetrarsi dei generi – una caratteristica comune a molte delle migliori serie della golden age della tv – ma anche nella capacità di utilizzare degli archetipi profondi ed eterni raccontando fatti, realtà e linguaggi strettamente contemporanei. Tutta la serie è intrisa di riferimenti alla mitologia e all’età classica, dal figlio Roman saltuariamente chiamato dal padre Romulus, ai discorsi alla memorabile cena con la famiglia rivale dei Pierce, snob possessori di un gruppo mediatico progressista che i Roy stanno cercando di acquisire, fino agli elmi corinzi nell’ufficio di Logan e alla puntata intitolata “Argestes” dal vento greco che spazza le nuvole. Succession vive del contrasto fra queste premesse archetipali, profonde, eterne e dialoghi che alternano battute troppo acute e intelligenti per essere vere – alla Aaron Sorkin, cioè – a momenti di profonda, realissima, inadeguatezza contemporanea. Non è un caso che nella terza stagione due puntate abbiano lo stesso titolo di libri per bambini e in una scena Logan legga a un nipote una storia che ricorda le vicende di Kendall, suo figlio e il padre del bambino.
Gli eredi Roy sono precisamente bloccati nel rito di passaggio contenuto all’interno del mito, sono prigionieri di un’infanzia infinita, una condizione di cui non hanno però alcuna contezza, il che naturalmente non fa che peggiorare la situazione. La differenza dei dialoghi iper-intelligenti delle serie di Aaron Sorkin (The Newsroom, The West Wing) e quelli che in parte occupano Succession è perciò che i secondi sono paradossali perché non sono pronunciati da persone con capacità super umane che dominano gli aspetti più difficili dell’esistenza, bensì da falliti intelligenti, persone che hanno un surplus di educazione, sì, ma che sono anche vacue e modaiole, abilissime nel cogliere le tendenze – anche aziendali – del momento, le parole chiave, così come conoscono il riferimento middle o high brown di turno, ma sono anche del tutto prive di consistenza, di quelle virtù istintive e di quella stabilità emotiva necessarie per agire nel mondo. Nonostante tutti gli sforzi e l’infinità dei mezzi sono come rotti in partenza.
Non a caso Logan Roy, ovvero colui che ha costruito tutta la baracca, indugia molto raramente nell’ironia, che deve sembrargli niente di più di una comoda via di fuga. La tragedia degli eredi Roy è anche il fatto che, al contrario del fratello Connor, continuano a provarci, girano come criceti su una ruota dalla quale non hanno alcuna reale possibilità di uscire. Il grande non detto della serie è infatti che si tratta di tre miliardari ormai quasi di mezza età che invece di ritirarsi a vita privata si affannano a lavorare solamente per ottenere l’approvazione del padre. I soldi, onnipresenti, contano per loro solo in quest’ottica.
Il dramma di questi tre iper-ricchi così diversi dal pubblico di spettatori genera comunque empatia anche grazie alle tecniche registiche che alternano inquadrature curate, da film d’autore, ad altre in P.o.v. (Point of view) che sembrano lo sguardo in prospettiva di un misterioso personaggio che non vediamo mai in faccia ma è sempre seduto a tavola, in aereo o in macchina con la famiglia Roy. Sovente la testa o la spalla di qualche altro personaggio gli ostruisce parzialmente la vista e questi sguardi in prima persona, quasi spiati, sono uno degli espedienti usati per generare presenza e un senso di vicinanza alla famiglia nello spettatore. Finché ci troviamo seduti in mezzo a loro passiamo volentieri sopra al fatto che ogni tanto i Roy si facciano scappare l’idea che i non milionari – quelli cioè che li hanno reso ricchi guardando i loro canali e leggendo i loro giornali – non siano “real people”, persone reali ma una specie di razza inferiore. Tutto l’impianto della serie è in un certo senso anche un’occulta macchina di seduzione faustiana.
Dal punto di vista stilistico Succession contiene inoltre continui riferimenti a pratiche, problemi e termini tecnici che solo una minima parte degli spettatori conosce, ma questo non è importante perché dalla nostra posizione di osservatori privilegiati ci basta guardare in faccia i personaggi per capire se una “Proxy battle” è una cosa positiva o meno per la famiglia. Ci basta vedere come reagiscono quegli esseri umani, le loro espressioni, le azioni che intraprendono. Questa è forse la lezione che sarebbe più facilmente trasportabile anche nelle narrazioni, non solo televisive, italiane in cui nella maggior parte dei casi tutto è sempre appiattito e iper-spiegato di proposito, con buona pace del realismo e della connessione profonda con i personaggi e con la scena. Certo, Succession è l’apice della tv cable, cosa molto diversa da quella generalista, ciò non toglie che in epoca di streaming certe lezioni potrebbero avere un valore più ampio.
La struttura è un altro elemento caratteristico di Succession, che è una grande serie soprattutto nel primo e negli ultimi due episodi di ogni stagione. Sempre scritti personalmente da Jesse Armstrong sono episodi dove i personaggi vengono tutti concentrati in un luogo – due matrimoni e una vacanza in barca – e i destini si compiono. Nelle puntate centrali invece la serie ha un andamento scomposto che nei momenti peggiori sembra la versione alta di una soap opera, con la frequente introduzione di personaggi che sembrano importantissimi per una o due puntate e poi di fatto spariscono, senza che vengano date spiegazioni. È quindi una serie a due velocità: la parte centrale serve da accumulazione psicologica e il plot sembra quasi sfaldarsi salvo però tornare poi solidissimo nell’ultimo atto.
Anche questa struttura però cospira al senso complessivo di Succession, che è una serie che poteva molto felicemente finire con la stupenda conclusione della seconda stagione e l’avvento al potere di uno dei figli: brividi sulla pelle dello spettatore, l’archetipo si compie, c’è un nuovo leone a capo della savana. Il mito ha esaurito la sua funzione perché ha guidato gli eventi nella realtà, si è rivelato profezia e pedagogia. Senonché non è questo lo spirito del tempo e la serialità televisiva, che è una delle sue espressioni più peculiari, vuole che il gioco riprenda ricominciando ogni volta dalla casella di partenza e i personaggi rimangano sempre bloccati nei loro drammi primigeni, senza una vera catarsi, senza soluzione, senza passaggio al livello successivo. O almeno alcuni personaggi, quelli più dentro quest’epoca storica dove crescere sembra vietato.
Il tema ritorna in molte opere contemporanee, si pensi ad esempio alla divertente “Strappare lungo i bordi” di Zero Calcare dove si lascia intuire che il tradimento della promessa di un’età adulta sia in fondo un mal funzionamento del sistema, il che è in parte vero ma non è certo tutta la storia. Succession porta lo stesso discorso a un livello più alto – lo stesso problema si pone anche con mezzi economici pressoché infiniti! – e utilizzando tutta la sua pluralità di mezzi espressivi e stilistici crea un’illuminante fusione di realtà storica e rappresentazione artistica.
Non è forse del tutto un caso che un attore della serie, Nicholas Braun (il cugino Greg) sia nella realtà pressoché identico al personaggio che interpreta o che Jeremy Strong (Kendall) durante le riprese che durano mesi non esca praticamente mai dal personaggio facendo infuriare cast e maestranze. Brian Cox, l’attore che interpreta Logan, il personaggio odiato da tutti ma sulla cui ricchezza tutti vivono, ha buon gioco a citare a proposito di questa tendenza del collega le parole di Laurence Oliver quando seppe che Dustin Hoffman dovendo interpretare un uomo privato del sonno non aveva dormito per tre notti “Caro ragazzo, perché non provi a recitare?”.
Così facendo però Cox finisce per assomigliare a volta al suo personaggio. Anche in questo sta la grandezza di Succession: è uno specchio in cui è molto facile riflettersi anche se racconta le persone potenzialmente più distanti da noi.