Daniele Rielli http://www.danielerielli.it Daniele Rielli - IL FUOCO INVISIBILE è in libreria Tue, 30 Apr 2024 15:07:09 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.2.19 IL FUOCO INVISIBILE http://www.danielerielli.it/il-fuoco-invisibile/ http://www.danielerielli.it/il-fuoco-invisibile/#comments Thu, 09 Mar 2023 22:29:35 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4929 Continua a leggere]]> 81S3fDcl-iL._SL1500_ (1)

 

IL FUOCO INVISIBILE  è entrato nella dozzina del Premio Strega, ha vinto il premio Sandro Onofri, assegnato dalle biblioteche di Roma ed è stato selezionato al premio Grand Continent per il miglior romanzo europeo.

“Con la sua maniera avvincente di raccontare, Rielli ci fa capire come tante cosiddette catastrofi naturali siano in realtà catastrofi umane.”

Emanuele Trevi

“Uno dei più bei romanzi usciti quest’anno”

Antonio Pascale – Il Foglio

“Un racconto a varie prospettive che si legge come un thriller e unisce il brio di certe indagini del New Yorker alla tendenza ri­flessiva intima e problematiz­zante dei reportage di Emma­nuel Carrère.”

Vincenzo Latronico – Domani

“Come in una versione ancora più farse­sca di Don’t look up non è l’a­steroide o il batterio tossico a farci spavento, ma la crisi epistemica che contagia gli esseri umani, la rimozione collettiva del disastro.”

Christian Raimo – TuttoLibri

“Il fuoco invisibile non è un saggio ma un romanzo del reale”

Chiara Severgnini – Corriere della sera

“Il racconto si fa insieme un roman­zo familiare e una sintesi delle evidenze scientifiche allo stato attuale; una lucida analisi storica, economi­ca e sociologica e uno spaccato di cronaca giudiziaria.”

Anna Rita Longo – Le Scienze

“Un formidabile romanzo famigliare – Il fuoco invisibile nella mia libreria lo metto all’ingresso, dove metto i libri di cui parlano tutti “

Alessandro Barbaglia – “Shelf, il posto dei libri”

“Così, per altro verso, Il fuoco invisibile è un libro che parla di come bisognerebbe e non bisognerebbe parlare delle cose, e perciò riguarda anche chi, come me, non ha uno speciale interesse per gli ulivi e le loro malattie, riguarda tutti i cittadini coscienti.”

Claudio Giunta

“”Il Fuoco invisibile” di Daniele Rielli è un libro che ne contiene al­meno quattro. Un raccolto fatto di consapevolezza, ricerca delve­ro, ascolto, riconciliazione con le cose umane.”

NIcola Pedrazzi -Il Foglio

“Una storia che è prima di tutto umana, dunque politica, che ha la cadenza di un giallo e il respiro tragico del dramma”

Annalisa De Simone – Il Riformista

“Il fuoco invisibile” di Daniele Rielli è un libro necessario.

Luca Martinelli – Il Manifesto

“Rielli ci consegna una lettura esemplare e istruttiva su un disastro contemporaneo”

Enzo Mansueto – Corriere del Mezzogiorno

Il 28 marzo è uscito il mio nuovo libro, si chiama “IL FUOCO INVISIBILE – storia umana di un disastro naturale” (Rizzoli) e da oggi si può prenotare in libreria o qui.
Questo libro è tante cose assieme: è il racconto di una grande illusione collettiva, un romanzo famigliare e la narrazione delle vite dei protagonisti, nel bene e nel male, di un’incredibile storia vera.
Se dovessi definirlo in una sola riga direi “il romanzo della strage degli ulivi”, un romanzo però dove ogni cosa è reale e tutti i personaggi esistono davvero. La puntata di PDR podcast in cui parlo del libro assieme a Amedeo Balbi:

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RocAntica 27,28,29 Luglio http://www.danielerielli.it/rocantica-272829-luglio/ http://www.danielerielli.it/rocantica-272829-luglio/#comments Fri, 21 Jul 2023 12:21:55 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4995 Cover (2)

 

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ODIO http://www.danielerielli.it/odio/ http://www.danielerielli.it/odio/#comments Wed, 10 Jun 2020 12:28:40 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4465 Continua a leggere]]>  

  IN LIBRERIA

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DICONO DI “ODIO”:

“Daniele Rielli ha scritto un grande romanzo sulle ossessioni della nostra epoca”

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“Un ritratto chirurgico e spietato”corriere-della-sera-logo

“Una cornice letteraria tecnicamente perfetta”

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“Come nei miti classici ci si brucia le ali volando incontro al sole”

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“Un romanzo rutilante, ambizioso, curato nei dettagli”

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 “Cinquecento pagine di profetiche deflagrazioni epocali “

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“Uno sguardo profondo sulla nostra condizione”

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  “Mette i brividi” 

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“La trama e il sistema dei personaggi sono articolati e catturano il lettore in modo incalzante, con colpi di scena,

relazioni sentimentali, cambi di scenario “

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 “Un fremito di rivolta che tutti abbiamo contro noi stessi

e la gigantesca balla che siamo diventati”

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 ” Un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, (…)

e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta».”

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Una piccola selezione delle interviste e degli interventi pubblici su Odio è qui.

 

ODIO è in libreria e su:

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( la voce nel trailer è di Francesco Montanari )

 

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“HOCKEYTOWN – il documentario” ora anche su YouTube http://www.danielerielli.it/hockeytown-il-documentario-al-cinema-2/ http://www.danielerielli.it/hockeytown-il-documentario-al-cinema-2/#comments Fri, 14 Jun 2019 17:29:33 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4234

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Saluto curva

Foto Palaonda

FINAL

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La gallina è tornata. http://www.danielerielli.it/its-back/ http://www.danielerielli.it/its-back/#comments Thu, 17 Jun 2021 08:43:52 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4803 LSG cop web

Gli inizi di DeSa, l’epopea di Salvatore Petrachi, il lato oscuro del Salento.

La nuova edizione cartacea nel Oscar Mondadori è nelle librerie e qui,l’audiolibro letto da FRANCESCO MONTANARI è in esclusiva su AUDIBLE con l’abbonamento (anche con prova gratuita di 30 giorni) o come acquisto singolo.

🔥🔥🔥🔥

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“STORIE DAL MONDO NUOVO” IN LIBRERIA http://www.danielerielli.it/daniele-rielli-storie-dal-mondo-nuovo-recensione/ http://www.danielerielli.it/daniele-rielli-storie-dal-mondo-nuovo-recensione/#comments Thu, 27 Oct 2016 14:29:23 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=3806 Continua a leggere]]>

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(2° edizione)

 Dicono di “Storie dal mondo nuovo”

Tanti pezzi diversissimi di mondo tenuti insieme dalla capacità di guardare i fatti e tradurli in narrazione, genere nel quale Rielli eccelle come Carrère o Tom Wolfe .

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Rielli aggiorna al terzo millennio un’idea classica del reportage narrativo, quella novecentesca dei Parise e Vassalli, Ceronetti e Piovene, Manganelli e Tabucchi fino a Tiziano Terzani. Brillantezza linguistica, scelta delle fonti, incisività, ritmo, indipendenza e libertà di pensiero sono le sue armi

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Alla mente torna il geniale Foster Wallace di “Considera l’aragosta

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Rielli possiede un controllo della lingua che lo sottrae ai velleitarismi pirotecnici che sono, invece, uno degli abiti ricorrenti della prosa italiana attuale

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Raramente ho trovato qualcosa di più inusuale e godibile nella descrizione della realtà. Daniele Rielli, ricordate questo  nome

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Daniele Rielli è la prova che in Italia anche il talento conta

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Si ride e si spalancano i neuroni

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Magnifici reportage

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Storie dal mondo nuovo, un rimedio contro la post-verità

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 “STORIE DAL MONDO NUOVO”

(Da Adelphi.it) I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell’elefante – nel cuore della Puglia. L’incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l’inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online. Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere.

alcune interviste a proposito di “Storie dal mondo nuovo”

La Stampa (video) 

La Lingua Batte- Radio Rai Tre

Minima Moralia
Comedy bay

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Michel Houellebecq: decadenza e salvezza in “Annientare” http://www.danielerielli.it/michel-houellebecq-decadenza-e-salvezza-in-annientare/ http://www.danielerielli.it/michel-houellebecq-decadenza-e-salvezza-in-annientare/#comments Thu, 06 Jan 2022 21:25:39 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4848 Continua a leggere]]> michel-houellebecq-assailli-par-les-journalistes-apres-son-prix-goncourt-le-novembre-2010_598942

 

Questo articolo è uscito su Il Foglio del 06.01.22

Come si scrive un romanzo sulla decadenza di una civiltà? Il compito non è agevole ma in tutta la sua carriera di scrittore Michel Houellebecq non ha mai temuto i grandi temi e il suo nuovo Annientare, in libreria dal 7 gennaio per la Nave di Teseo, non fa eccezione.

Il romanzo si svolge fra il 2026 e il 2027, Paul, il protagonista, è il consigliere e confidente personale di Bruno Juge, il ministro dell’economia che ha risollevato l’economia della Francia. Bruno è una persona per molti versi encomiabile: lavoratore instancabile, moralmente integro, nazionalista senza eccessi, è l’immagine Houellebecquiana del politico ideale. Ciò non toglie che finisca ghigliottinato, seppur solo virtualmente, in un misterioso video realizzato con capacità tecniche molto più avanzate rispetto a quelle delle migliori aziende di computer grafica ed effetti speciali. È solo il primo di una serie di atti terroristici, prima solo simbolici e poi anche violenti. L’identità degli autori è misteriosa ma sembra probabile che siano ispirati da un mix di luddismo filosofico à la Unabomber e di esoterismo satanista.

Houellebecq ha detto in più occasioni che politicamente le persone “tendono a pensare ciò che disturba meno il loro gruppo sociale” e il Paul di Annientare si comporta di conseguenza. Vota per l’amministrazione per cui lavora, seppur senza grosso entusiasmo e senza stimare il presidente che al contrario del suo ministro gli sembra una persona intelligente e talentuosa ma totalmente definita dal suo cinismo.

Il meccanismo di predeterminazione funziona per tutti, anche per lo stesso ministro, tanto che quando Bruno sostiene che sarebbe un peccato per la Francia se venisse eletto il Rassemblement national Paul si chiede “Da dove gli veniva quella convinzione? Da un ragionamento basato su una certa forma di razionalità economica? Da una morale antirazzista, umanista, che aveva ricevuto in retaggio? O più semplicemente dalle sue origini borghesi? Tutte quelle spiegazioni del resto potevano coincidere”. Quando diventa chiaro che l’obbiettivo degli attentati sono i leader delle più importanti aziende tecnologiche del mondo, l’indifferenza ideologica di Paul non gli impedisce tuttavia di pensare che “se l’obiettivo dei terroristi era quello di annientare il mondo come lui lo conosceva, di annientare il mondo moderno, non poteva dargli affatto torto”.

 Ma in cosa consiste il mondo moderno e che cos’è la decadenza? Domande a cui è molto difficile rispondere direttamente, il che rende “Annientare” uno dei libri di Houellebecq più “laterali” e per certi versi quindi più propriamente romanzeschi. Paul sostiene che “Il concetto di decadenza poteva anche essere difficile da circoscrivere, ma ciò non voleva dire che non fosse una realtà potente”. La decadenza di una civiltà è un fenomeno frastagliato, che si avverte con chiarezza ma i cui confini non sono sempre facilmente delineabili ed è un qualcosa di assieme personale e collettivo. È probabilmente anche per questo motivo che Houellebecq apre per la prima volta alla presenza in un suo romanzo di relazioni familiari articolate e vive, relazioni che vanno oltre gli sparuti resti ormai freddi – fatti di funerali, burocrazia, abbandono e incomunicabilità – a cui ci aveva abituato nei libri precedenti quando parlava della condizione familiare dei suoi protagonisti.

L’Homo Houellebecquensis fino ad Annientare ha sempre vissuto in uno stato di solitudine straziante ed estrema, impegnato in una lotta interiore e impari con la sua società e con il suo tempo storico.  Con l’eccezione dell’insuperato esordio (Estensione del dominio della lotta), la situazione in cui si ritrova tipicamente l’H.H non è necessariamente realistica, il quadro può anzi risultare fin troppo estremo, a tratti grottesco, l’intenzione è sempre quella di illuminare il mondo attraverso la sua deformazione e di dare un respiro lirico al presentarsi di un miglioramento. In genere, questa condizione di isolamento assoluto viene infatti resa più sopportabile dalla comparsa di una donna: l’amore in Houellebecq è l’unica forza in grado di emendare la condizione tragica dell’esistenza e il fatto che l’innamoramento sia un fenomeno transitorio, se non altro perché interessa delle creature mortali, non fa che rendere le cose ancora più dolorose.

Nel caso di Paul in Annientare, il digiuno amoroso e sessuale dura da anni e questo nonostante sia ancora tecnicamente sposato con Prudence, una donna con cui condivide un appartamento e che vede molto di rado. La moglie si è distaccata da lui dopo essersi convertita al veganesimo radicale e aver aderito alla religione neopagana Wicca, due eventi che l’hanno condotta verso una vita asessuata. Quando le cose fra i due incominciano a cambiare in meglio il narratore osserva “Un padre giudice a Versailles, con una prima casa a Ville-d’Avray e una di villeggiatura in Bretagna, gli studi al Sainte-Geneviève, poi a Sciences Po e all’ENA, in fondo non c’era nulla di sorprendente nel fatto che Prudence fosse diventata asessuata e vegana. Era il suo sforzo attuale per ritrovare la sua femminilità a essere eccezionale”.

I rivoli della decadenza sono numerosi, sono destini famigliari, pratiche quotidiane e convinzioni sociali, sono debolezze occasionali e vizi protratti. I segni della decadenza attraversano le riflessioni di Paul e le vite della sorella convintamente cattolica e del marito un ex notaio vicino al Fronte Nazionale, così come si scorgono in quella del fratello restauratore di arazzi e continuamente umiliato dalla moglie, una giornalista woke egoista e non particolarmente brillante che nonostante il marito non fosse affatto sterile ha preferito ricorrere all’inseminazione artificiale perché desiderava un figlio nero.

La decadenza in Annientare è l’aria che si respira, è l’insoddisfazione generale, l’incapacità di individuare una singola causa scatenante e di conseguenza l’impossibilità di intravedere una possibile soluzione. Il problema è che un singolo colpevole non c’è, neppure la tecnologia digitale può essere considerata l’unica responsabile della situazione, nonostante Paul abbia gioco facile nel chiedersi “A che serviva installare il 5G se non si riusciva semplicemente più a entrare in contatto, e a compiere i gesti essenziali, quelli che permettono alla specie umana di riprodursi, quelli che ci permettono anche, a volte, di essere felici?”. Il punto è più complesso e di lungo periodo, l’obbiettivo polemico è il peso della libertà assoluta, la dittatura infelicissima della felicità ad ogni costo ovvero l’individualismo fatto sistema nella contemporaneità degli eterni bambini.

Un’epoca in cui il consumo si propone di risolvere ogni problema, una promessa che si fonda però sul fatto di non poter essere mantenuta ed è quello che lo scrittore Frédéric-Beigbeder, grande amico di Houellebecq, definiva il terrorismo della novità che serve a vendere il vuoto. Quello che manca è qualcosa di più profondo e insondabile, ovvero Una forza oscura, segreta, la cui natura poteva essere psicologica, sociologica o semplicemente biologica, non si sapeva cosa fosse ma era terribilmente importante perché da essa dipendeva tutto il resto, la demografia come la fede religiosa e, in definitiva, la voglia di vivere degli uomini e l’avvenire delle loro civiltà”.

Paul riflette anche sul fatto che il boom di natalità nel secondo dopo guerra – ovvero dopo massacri che avrebbero dovuto mostrare tutta l’insensatezza della condizione umana –  si possa  spiegare solo con il carattere ideologico, politico e morale della seconda guerra mondiale “Per quanto sanguinosa potesse essere stata, la lotta contro il nazismo non si era limitata al possesso dei territori, non era stata una lotta assurda, e la generazione che aveva trionfato su Hitler lo aveva fatto con la chiara consapevolezza di combattere dalla parte del Bene. La seconda guerra mondiale quindi era stata non solo una guerra estera come tutte le altre, ma anche in un certo senso una guerra civile, dove ci si batteva non per mediocri interessi patriottici, ma in nome di una certa visione della legge morale”.

Siamo qui vicini al centro del pensiero del pensiero di Houellebecq: il bisogno di una fondazione morale.  Lo scrittore francese consiglia di leggere i suoi libri in ordine cronologico perché più volte è tornato sugli stessi argomenti, cercando di migliorarsi e di illuminare aspetti che sente di aver mancato al primo tentativo. Così la scienza che supera i limiti umani de Le particelle elementari appare anche in uno dei suoi libri migliori, ovvero La possibilità di un’isola. Allo stesso modo il turismo è al centro sia di Lanzarote che di Piattaforma e l’Islam appare in Piattaforma e poi, più approfonditamente, in Sottomissione. La distopia politica di Sottomissione riemerge in Annientare, così come l’ampliarsi del mondo relazionale a cui si assiste nel nuovo libro potrebbe essere anche letto come il successo della cura farmacologica al centro di Serotonina, visto che notoriamente la depressione richiude le persone in sé stesse, distaccandole degli altri. Serotonina a sua volta è una versione più anziana, meditata e meno poetica di Estensione del dominio della lotta. Annientare infine si contamina con il genere (il thriller) proprio come La carta e il territorio incrociava il giallo durante l’indagine attorno alla morte violenta di Michel Houellebecq personaggio letterario.

Le linee che si possono tirare sono numerose, il punto però è che in tutti i romanzi di Houellebecq i temi ritornano, si sovrappongono, si completano e talvolta si smentiscono anche a vicenda, in special modo quando la narrazione si sposta nel futuro prossimo e si produce in scenari scientifici, politici e socio-economici. Mappe poste sopra territori ancora distanti e che in quanto tali durano giusto il tempo di un romanzo. Quello che invece resta, il segnale coerente, è lo spaesamento, il senso di mancanza, la determinazione a parlare nei romanzi delle cose più serie e importanti, ovvero l’amore, la morte e la mancanza di senso, prima di tutto. Non si dà slealtà parlando di cose ultime, sosteneva il nostro Giorgio Manganelli e su Houellebecq si può dire molto ma di certo non che sia uno scrittore sleale, prima di essere romanziere è un poeta e, benché lui credo lo negherebbe con forza, un filosofo.

Ed è proprio nel suo modo peculiare e intransigente di concepire il romanzesco che Houellebecq fa convivere queste due propensioni fra loro così antitetiche; il risultato è proprio lo stile immediatamente riconoscibile che compenetra ogni opera, creando una rete interconnessa.  Uno stile che è stato odiato da molti, soprattutto in Francia e soprattutto quando la carriera di Houellebecq conosceva i primi grandi successi, ma che è amato da autori e lettori in tutto il mondo, il che lo rende senza alcun dubbio lo scrittore francese vivente più noto.

Nonostante Houellebecq sia fondamentalmente un romantico che mette al centro della sua scrittura una visione fortemente morale dell’esistenza, la sua opera è stata spesso letta come una sorta di apologia del nichilismo, il che è paradossale se si considera che la distruzione dei valori è precisamente l’oggetto polemico di tutto il suo lavoro. Aiuta all’equivoco la propensione di Houellebecq a raccontare la condizione umana senza accomodamenti, una narrazione dove nulla viene taciuto o edulcorato, semmai, anzi, estremizzato.

Houellebecq è anche programmaticamente alieno ai modi pacati e alle convenienze borghesi, tanto che Yasmina Reza, altra grande scrittrice e sua sostenitrice della prima ora, lo ha definito “non addomesticato”. Creatura eminentemente mediatica proprio perché antimediatico (definizione di Daniele Schneidermann), già ribattezzato “Cane Droopy in versione cannibale”, Houllebecq si aggira ormai da decenni ai piani alti della letteratura francese, prima come un ospite indesiderato e poi come improbabile figura di vertice, sempre avvolto nel suo eterno parka Camel Legend.

Alle frequenti incomprensioni a livello mediatico (i lettori sembrano capirlo, come talvolta accade, meglio degli addetti ai lavori), si aggiunge il possibile equivoco che può generare in alcuni la precisione, questa sì quasi documentaria, con cui Houellebecq ha sempre raccontato il sesso nei suoi libri, indisponendo coloro che preferiscono elisioni o, peggio, scelte linguistiche pudibonde. In Houellebecq non c’è rischio che un culo venga rieticchettato “natiche” o che vengano prese altre scelte tragicomiche e tuttavia diffuse in quella letteratura contemporanea che spesso si rivela ben più puritana del suo tempo storico.

In una lettera di ringraziamento di qualche anno fa a Salman Rushdie, Houellebecq confessava di non riuscire a liberarsi dell’idea “frequente nelle persone popolari e un po’ anziane” che ciò che è scritto sul giornale sia vero. Una ribellione ironica ai nonsense della comunicazione contemporanea, alla sciatteria del giornalismo e al surrealismo del marketing, attraversa in effetti tutte le opere di Houellebecq. Dopo aver letto Piattaforma ad esempio, diventa impossibile leggere una Guida Routard senza ridere. Questa resistenza piccata dei personaggi nei confronti della voce della società viene messa in scena proprio perché i discorsi dall’alto sono presi estremamente sul serio.

Questa voce fuori campo faceva in certo senso parte del determinismo sociale tipicamente houellebecquiano e per questo colpisce che sia pressoché scomparsa nel mondo di Annientare. Rispetto all’oppressione grigia, impiegatizia e anonima dei tempi di Estensione, l’era in cui si svolge Annientare ha visto la moltiplicazione infinta delle voci ma, sorpresa delle peggiori, si è scoperto che questo apparente miracolo non ha generato intelligenza ma ulteriore appiattimento, ha piegato le individualità alla statistica, alla misurazione tecnologica, e ha rivelato tutta la pochezza di cui siamo fatti. Il mondo è più colorato e ricco di offerte ma questo non sembra affatto averlo reso un posto meno disperato, anzi. La voce della società a cui opporsi nella convinzione che in fondo l’uomo sarebbe migliore di così è scomparsa per ricomparire nascosta dentro tutti noi. Opporsi con una battuta tagliente non serve più a niente, mancano i presupposti, manca l’esternalità. Anche per questo durante un viaggio in treno Paul pensa che il suo stesso ministro “Si sarebbe sentito a disagio con quegli hamburger creativi, quegli spazi zen dove ci si poteva far massaggiare la cervicale durante il tragitto ascoltando il canto degli uccelli, quella strana usanza di etichettare i bagagli “per motivi di sicurezza”, insomma, con la piega generale che le cose avevano preso, con quell’atmosfera pseudo-ludica, ma in realtà di una normatività quasi fascista, che aveva a poco a poco infettato ogni piega della vita quotidiana”.

In Annientare sembrano finite anche quelle speranze che a lungo Houellebecq aveva riposto nella tecnologia dopo averla correttamente individuata come il vero motore della storia, in ogni caso ben più della filosofia, della politica e dell’economia. Houellebecq non è mai stato un luddista, nel bilocale in cui abitava a inizio carriera erano accatastati computer e numerosi oggetti tecnologici, il protagonista di Estensione era un informatico. La scienza della vita e della morte, la scienza che creava mondi, che mutava le specie, salvandole da sé stesse, sembra però aver lasciato il posto ad una tecnologia minima eppure onnipresente, la tecnologia dell’informazione e delle app che si nutrono di attenzione umana. Nulla a che vedere con la clonazione, l’immortalità ma neppure con la meccanica. È questo il mondo senza una voce univoca e senza prospettive di Annientare, un mondo in cui la malattia del corpo arriva quando in fondo è diventato evidente, una volta di più, che l’unica isola su cui rifugiarsi è l’amore di una donna.

Fra i tratti salienti di questo mondo in decadenza lenta e a tratti festosa – seppure in quella maniera segretamente angosciata che si confà alla vita dei grandi debitori – si è assistito anche a un altro rovesciamento valoriale significativo, l’instaurazione del mito dell’infanzia.

“Attribuendo più valore alla vita di un bambino, quando non abbiamo nessunissima idea di cosa diventerà, se sarà intelligente o stupido, un genio, un criminale o un santo, neghiamo ogni valore alle nostre azioni reali. I nostri atti di eroismo o di generosità, tutto ciò che siamo riusciti a realizzare, i nostri traguardi, le nostre opere, niente di tutto questo ha più il minimo valore agli occhi del mondo; e ben presto non ne ha più nemmeno ai nostri occhi. In questo modo priviamo la nostra vita d’ogni motivazione e di ogni senso; è puro nichilismo.”.

In Annientare appaiono anche alcuni luoghi idealtipici della Francia, come una casa avita immersa nelle vigne nel Beaujolais; tutto questo è abbastanza inconsueto in Houellebecq che a Parigi vive in un’anonima torre nel quartiere cinese nei pressi di Place d’Italie e in “Rester vivant”, la mostra delle sue fotografie che si è tenuta qualche anno fa al Palais de Tokyo, si è concentrato soprattutto su periferie, supermercati, villaggi turistici e parcheggi. Oltre che sul suo amatissimo cane Clément, naturalmente.

Ulteriore anomalia in Annientare è la cura nelle descrizioni degli ambienti sociali e delle pratiche mediche, un dettaglio frutto di ricerche estese, le stesse che Houellebecq in passato si era vantato di non fare, o comunque di ridurre al minimo, al contrario degli scrittori americani. Se le descrizioni scientifiche in passato apparivano quindi come il controcanto alla voce della società ottenuto attraverso l’ingegno dello scrittore e il recupero di autori del passato, in questo nuovo romanzo la presenza del dato di realtà è più forte e l’impianto di Annientare complessivamente ne guadagna. Per via di tutte queste innovazioni stilistiche, questo romanzo che pur contiene tutti i capisaldi del pensiero del suo autore potrebbe curiosamente rivelarsi quello più gradito ai lettori che storicamente non hanno mai amato Houellebecq, un po’ come è recentemente successo in un altro campo con “È stata la mano di dio” di Paolo Sorrentino. Mi sento però qui di rassicurare anche i lettori appassionati: anche con le novità che introduce, Annientare rimane comunque un romanzo decisamente Houellebecquiano.

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 PDR è il mio nuovo podcast dove dialogo senza limiti di tempo e vincoli di attualità con artisti, scrittori, giornalisti, scienziati, sportivi e persone interessanti in generale, un luogo per provare ad uscire dall’automatismo delle risposte scontate e, spero, anche per far incontrare fra loro idee diverse e lontane. Tutto con la massima libertà di espressione.

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Un breve saggio su politically correct e ideologia Woke

Questo pezzo è apparso su Il Foglio il 3 Luglio 2021 – (Foto di Chip Somodevilla/Getty Images) 

Perché molti commentatori, giornalisti e politici faticano a capire che cosa ci sia di così fastidioso per tanti italiani nella pressante richiesta fatta ai calciatori della Nazionale di inginocchiarsi in omaggio al movimento Black lives matter? Perché non riescono ad accettare che si possa essere contro il razzismo e al contempo non sposare questa determinata forma di protesta? E’ una domanda a cui non è facile rispondere se non si prende in considerazione la natura di religione estremista che contraddistingue la cultura woke, una natura che in questa vicenda specifica si coglie da almeno due elementi, che sono poi quelli che probabilmente non convincono – a livello più o meno istintivo – anche la maggioranza della popolazione.

Il primo è la presunzione di colpevolezza universale, ovvero, in termini religiosi per l’appunto, il peccato originale. Ogni occidentale, e segnatamente ogni occidentale bianco, secondo il credo woke nascerebbe colpevole a priori di razzismo (e di sessismo e di omofobia), colpe delle quali, anche con tutta la buona volontà, non si potrà mai emancipare. Non conta il suo comportamento, non conta la sua responsabilità personale, il colore della pelle lo definisce in toto e lo definisce come colpevole. La sua perciò deve essere una vita contraddistinta dal senso di colpa, questa la sua croce, il suo destino e tutto questo in virtù della sua appartenenza razziale (è questa la direzione auto-contraddittoria che ha preso l’antirazzismo contemporaneo). Questa colpa ontologica – antitetica a una cultura della responsabilità personale – è ciò che sul piano geografico conduce alla pretesa di far travalicare al rito dell’inginocchiamento i confini della realtà sociale dove è nato (gli Stati Uniti, con la loro storia di schiavismo e segregazione), mutandolo in una più generica proposizione morale che per l’appunto presuppone una colpa condivisa, una responsabilità che da storica e locale diventerebbe presente, universale e inemendabile, tanto che anche da italiani non assecondare il rito sarebbe di per sé stesso un gesto di empietà e di colpevolezza. Andrebbe ancora bene se gli atleti potessero scegliere liberamente e individualmente se partecipare a questa ritualità – seppur così più invasiva di tante altre a cui hanno già acconsentito in passato (i nastrini per i lutti, i segni rossi sul volto contro la violenza sulle donne) – il problema sta tutto nel ricatto morale, nella pressione mediatica e nei rischi di perdere le sponsorizzazioni per chi decide in scienza e coscienza che, come lo scrivano di Melville, preferirebbe di no.

Quando una protesta diventa obbligatoria cambia la sua natura e da atto di solidarietà verso una rivolta altrui diventa imposizione e quindi, per definizione, si rovescia nel suo esatto contrario. Da qui quella sorta di obbligatorietà irritata che molti percepiscono, giustamente, come travalicante i confini di una protesta condivisibile e sentono invece come un atto di imposizione prepotente, peggio ancora come un atto di accusa del tutto immotivato nei confronti di chi vuole decidere le forme e i modi attraverso cui rappresentare la propria coscienza morale.

Le accuse generalizzate dei woke sono, a ben guardare, pesantissime e profondamente offensive. Nella loro ripetizione meccanica si perde l’assoluta gravità del fatto che per loro sia del tutto normale tacciare una larga parte della popolazione di razzismo (o sessismo, o omofobia) senza mai sentire su di sé l’onere della prova, questo però non toglie che si tratti di una generalizzazione violenta e inaccettabile: accusare qualcuno di razzismo è un processo lesivo della dignità altrui e questo non andrebbe mai dimenticato. Queste generalizzazioni arbitrarie sono però anche la pietra angolare dell’intero edificio woke: tutto crolla se solo si ricorda l’ovvio: essere nati di un determinato colore in una determinata zona del pianeta non significa in automatico essere colpevoli di ogni genere di nefandezza. Il razzismo autolesionista rimane comunque razzismo. Il credo woke con la sua pretesa di ridurre tutta la complessità dell’esperienza umana solamente all’apparenza a questa o quella categoria (bianco, nero, donna, trans, eccetera) è la più subdola e insidiosa fra le forme di razzismo.

L’idea che si possano non accettare le forme e i modi del culto woke e ciononostante non essere affatto razzisti (anzi, di fatto esserlo molto di meno), non è però, per l’appunto, contemplata. Le scelte offerte dai nuovi adepti, sempre più numerosi nel mondo dei media e della cultura, sono solo l’adesione completa o la profonda empietà. Da qui all’obbligatorietà il passo è naturalmente molto breve. Nel silenzio timoroso di ritorsioni economiche e sociali, vanno persi i distinguo, compresi i limiti e le criticità del movimento Black lives matter sul fronte interno, come i saccheggi sistematici, l’impennata di violenze nei quartieri neri a danno della popolazione nera (uno dei mantra di Blm è anche “Defund the police” togliere fondi alla polizia, non migliorarla), in particolare nei quartieri di Portland rimasti per mesi in mano ai manifestanti di Blm e senza polizia, zone dove il tasso di omicidi è schizzato alle stelle. Si oppone anche un anatema di impronunciabilità a chi fa notare la tribalità anti-illuministica del nome Black lives matter, preferito a All lives matter, slogan tanto più giusto e progressista da parere ovvio. Tuttavia anche questa semplice osservazione rispetto al nome è oggi considerata segno di massima eresia presso i credenti, non conta che il senso delle parole – se le parole hanno ancora un senso – sia fin troppo evidente: “All” è un sovra-insieme che contiene anche “Black” né conta che come concetto “Tutte le vite contano” sia molto più evoluto e includente, un vero obbiettivo a cui tendere: un mondo dove non conta più di che colore sia la pelle di una persona, non ci si fa neppure più caso perché sono altre le cose che contano. E’ questo uno dei tanti casi in cui il logos contemporaneo si piega al ricatto di appartenenza della tribù, alle presunzioni di malafede, agli straw man argument, insomma all’impossibilità di intraprendere una discussione razionale che vada oltre il ricordare a tutti che si è sempre dalla parte giusta.

Anni fa incontrai Frank Serpico nel nord dello stato di New York, mi raccontò che la sua attività principale era diventata fare da consulente per i parenti delle vittime della polizia. Seguiva omicidi sia di neri che di bianchi, la differenza principale, mi raccontò, era che nel caso dei bianchi era tendenzialmente più facile ottenere dei risarcimenti. Anche al di là dell’aneddotica, seppur di un esperto di settore, i dati parlano chiaro, in America i neri muoiono per mano della polizia percentualmente più dei bianchi, tuttavia anche i bianchi vengono uccisi a ritmi che in Europa non osiamo nemmeno immaginare. Insomma, il problema è articolato, riguarda anche la diffusione nella popolazione delle armi da fuoco, l’attitudine e l’addestramento della polizia americana, così come una concezione culturale specifica del rapporto fra cittadino e forze dell’ordine, la diffusione delle aziende private nelle gestione della sicurezza pubblica (a questo proposito può essere interessante leggere “Il dilemma dello sconosciuto” di Malcolm Gladwell), senza dimenticare le problematiche socio-economiche che rendono alcune zone delle città molto più esposte di altre al rischio di omicidio per mano della polizia. Insomma al netto delle diverse incidenze razziali che nessuno nega, il problema andrebbe affrontato complessivamente: davvero tutte le vite contano. In una situazione dai toni orwelliani molte persone negli Stati Uniti sono invece state licenziate per aver detto che come slogan avrebbero preferito All lives matter a Black lives matter (sorte toccata fra gli altri anche un radiocronista della Nba), tutto sommato quindi la pressione a cui sono stati sottoposti i calciatori italiani, per quanto espressione di questo nuovo maccartismo globale, rappresenta una fase meno intensa e precedente rispetto alle persecuzioni oggi apertamente in atto nel mondo anglosassone. Ogni giorno però l’Italia e l’Europa si avvicinano all’America.

Il credo woke ha nel capitalismo corporate il suo alleato d’elezione, perché niente torna comodo a una multinazionale quanto dare una passata superficiale di colore “inclusivo” alla comunicazione del suo brand garantendosi così maggiore benevolenza su tutto il resto: dalle condizioni dei lavoratori, alle responsabilità ambientali, alle pratiche monopolistiche. Una larga parte del sistema economico oggi ha imparato a temere le capacità di boicottaggio della minoranza woke ma sa anche che, se accarezzato dal lato giusto del pelo, questo nuovo radicalismo può rivelarsi un volano con pochi uguali per garantire affari e un sostanziale lasciapassare per le malefatte che non rientrino nel cono di attenzione dei moderni sacerdoti dell’inclusività. Per non sbagliare, gli influencer più importanti vengono comunque messi spesso sotto contratto come brand ambassador attraverso accordi che limitano la loro libertà di espressione sulle attività delle multinazionali per cui lavorano. Nel suo “Skin in the game”, Nassim Taleb ricorda che nel capitalismo avanzato vige, per motivi di mera efficienza economica, il primato della “minoranza ostinata”, in buona sostanza per quanto possa sembrare contro-intuitivo a una minoranza molto determinata basta raggiungere il 3-4 per cento della popolazione per costringere la maggioranza ad adeguarsi alle sue esigenze.

Un esempio? La limonata kosher. Laddove il costo per produrre una limonata kosher è simile a quello della limonata non kosher e i consumatori kosher raggiungono almeno il 3-4 per cento del mercato, tutti i produttori di limonata assennati produrranno limonata kosher, in genere certificata attraverso un marchio che verrà notato solo da coloro che consumano kosher (negli Stati Uniti è una U stampata vicino agli ingredienti). In termini tecnici quello che abbiamo qui è un gruppo intransigente (la minoranza) e un gruppo flessibile (la maggioranza). Una dinamica simile a quella della limonata kosher negli Stati Uniti la osserviamo nelle carni halal in Gran Bretagna. Ora, questi sono esempi di produzioni alimentari ma la stessa dinamica si può applicare alla pressione degli attivisti woke a favore di una censura del linguaggio, del licenziamento di persone che esercitano la loro libertà di espressione e altre cosiddette battaglie inclusive. La maggioranza della popolazione ritiene che siano esagerazioni ma ha altro a cui pensare, teme ritorsioni e in fondo pensa che si tratti comunque di esagerazioni a fin di bene. Finché, naturalmente, non arriva il loro turno. Non è in corso quindi nessun rinascimento inclusivo, né alcun cambiamento nella sensibilità popolare: si tratta di un meccanismo di mercato capitalista. In sostanza stiamo parlando, almeno finché i costi rimangono equiparabili, di una sorta di dittatura nascosta delle minoranze. La battaglia attorno alle parole segue la stessa logica: non è certo delle più costose in termini produttivi – una pubblicità costa grossomodo uguale che sia censurata o meno – quindi rientra in questa dinamica. I costi culturali e democratici sono in compenso elevatissimi, perché il linguaggio è un bene comune e il fatto che venga preso in ostaggio dalle minoranze ideologizzate genera danni collettivi pesanti e finisce per cambiare l’essenza stessa del nostro sistema politico. Si pensi a come in pochi anni minoranze risicatissime ma ostinate siano riuscite a far passare diverse aberrazioni linguistiche anche nella lingua italiana.

In virtù di questo genere di meccanismi il marketing corporate è una delle grandi forze propulsive storiche del wokismo, come ha colto in profondità anche Bret Easton Ellis nel suo “White”. L’altro fattore centrale nell’affermazione del wokismo è stata la diffusione dei social network. Marketing aziendale e social network rappresentano rispettivamente il braccio strutturale e quello sovrastrutturale del culto woke, d’altronde non si è mai vista una religione che si sia affermata senza incarnare le esigenze strategiche delle parti sociali più influenti del proprio tempo o senza che i suoi contenuti avessero la giusta fitness evolutiva rispetto alle caratteristiche dei media più diffusi. Questo concretamente significa che le religioni si adattano ai mutamenti dei mezzi di comunicazione, per cui se in una società della tradizione orale è importante essere degli abili racconta-storie attorno al fuoco o stratificare efficaci narrazioni metaforiche all’interno dei riti sacrificali, in quella della scrittura è centrale la redazione di testi sacri, in quella della stampa e della televisione è importante un controllo dei media di massa. La società dei social network non fa certo eccezione e la sua architettura premia coloro che sanno avvantaggiarsi della dinamica vittimaria e del rogo primordiale del capro espiatorio perché è questo il modo con cui le piattaforme massimizzano il tempo che gli utenti passano esposti alle pubblicità. In un certo senso nella scala della storia si tratta di un’involuzione messa però in atto con ampio dispiegamento di tecnologie raffinatissime. La disintermediazione per molti aspetti primitivizza e appiattendo ogni cosa riporta allo stato originario di guerra di tutti contro tutti. La figura centrale dell’epoca woke è la vittima sacra, che ha sostituto quella del vincente, dell’uomo pio o dell’uomo virtuoso delle epoche precedenti. Il cambiamento è agevolato dal meccanismo di denuncia perpetua dei social network, ambienti in cui l’incentivo numero uno per ottenere l’attenzione è la denuncia di qualche malefatta subita, sempre nel codice più binario, immediato e bianco e nero possibile. Il meccanismo è ciclico per cui la vittima di oggi può facilmente diventare il capro espiatorio di domani, come vediamo accadere più o meno quotidianamente.

sacerdoti supremi di questo meccanismo in virtù del quale l’indignazione genera attenzione che a sua volta genera denaro, sono naturalmente gli influencer. Proprio su queste pagine è apparso un bel racconto di Michele Masneri a proposito di un suo scontro con l’Estetista cinica. Dai dettagli della storia emerge il ritratto di un’industria che sul mercato dell’indignazione prospera, inscena scientificamente una sorta di wrestling morale, dove l’indignazione forse non sarà genuina ma di sicuro genera engagement e aumenta i fatturati. Curiosamente, nonostante la brillantezza del suo pezzo e la durezza dell’esperienza subita, Masneri ironizza sull’“improbabile dittatura del politicamente corretto” senza cogliere come le due cose siano fra di loro legate in maniera indissolubile: il vittimismo è precisamente la radice filosofica del politicamente corretto. Il secondo non può esistere senza il primo. Il secondo segnale che l’affaire inginocchiamento ci offre rispetto alla natura religiosa del wokismo è fin troppo chiaro e sotto gli occhi di tutti: è l’atto dell’inginocchiamento in sé.

Poche cose sono più potenti di un’analogia quando si tratta di sintetizzare concetti complessi e c’è qualcosa di fin troppo evidente nella radice teologica nel gesto di inginocchiarsi di Black lives matter. Nella nostra cultura ci si inginocchia solamente di fronte a Dio (o almeno così fanno i credenti) o in situazioni estreme in cui la dignità personale viene messa da parte per gli scopi superiori, come la richiesta di perdono o per una proposta di matrimonio. Pentimento o amore, non proprio due motivi banali, come è giusto che sia perché l’inginocchiarsi è un’infrazione piuttosto pesante alla dignità di un uomo o di una donna propriamente detti. L’espressione “con la schiena dritta” esprime l’altro estremo, quello auspicabile, della metafora fisico-morale. Non ci si inginocchia a cuor leggero, con buona pace di tutti i commentatori che dicono “cosa costerà mai inginocchiarsi”. Dipende, temo, da quanto valore si dà alla propria dignità personale, alla simbologia corporea, al potere delle metafore, all’idea che sia importante chiedere scusa ma solo quando si sia veramente colpevoli di qualcosa, altrimenti si tratta di una banalizzazione o di una subdola forma di sopraffazione. Per altro è piuttosto ironico che questa propensione a inginocchiarsi come si trattasse di bere un bicchier d’acqua arrivi da un culto la cui origine filosofica affonda nel post-strutturalismo francese. Era proprio Michel Foucault, infatti, a parlare di corpi docili, forgiati dai regolamenti invasivi delle istituzioni pubbliche e private, istituzioni che attraverso il governo dei piccoli gesti quotidiani arrivavano a dominare le menti e i cuori degli uomini a loro sottoposti. Su questo Foucault aveva ragione e l’obbligo di inginocchiamento non fa eccezione: è ginnastica mentale oltre che fisica ed è una metafora di sottomissione, come lo sono ogni piccola e grande prepotenza a cui i woke vogliono sottoporre, attraverso leggi, regolamenti e ricatti occupazionali, il resto della popolazione.

Tutto questo scompare però nella capacità di unire queste contraddizioni all’interno di un principio unificante, l’idea cioè che tutte queste dinamiche – che contengono i semi di una deriva autoritaria – siano in fondo meno importanti dello scopo, in questo caso l’eliminazione del razzismo. Che questo modo intollerante, settario e tribale di provare a risolvere questi mali sia l’unico possibile e che sia in qualsivoglia modo efficace è qualcosa su cui però non ci sono dubbi di sorta: non solo non funziona ma fortunatamente non è nemmeno l’unico modo. L’illuminismo con i suoi ideali di uguaglianza di fronte alla legge è un modello universale non perfetto ma infinitamente superiore dal punto di vista sia della raffinatezza teorica sia dell’efficacia pratica. Ci sono cioè modi migliori di cercare di eliminare il razzismo, il sessismo e l’omofobia, ad esempio smettere di giudicare una persona prima di tutto sulla base del suo colore della pelle, del suo sesso o del suo orientamento sessuale. Un nero non è necessariamente una vittima sacra, un bianco non è necessariamente un carnefice fascista: sono esseri umani. Ai woke piace raccontare l’inclusione come il risultato delle sue battaglie ma prima dell’esplosione del culto questa era già la direzione a cui era avviato da tempo l’Occidente, con risultati sempre più incoraggianti. Che ogni cosa si possa risolvere dall’oggi al domani e che il sistema sia in toto disfunzionale in ogni sua manifestazione e intenzione, è invece la tipica convinzione massimalista woke (proprio come il postulato del razzismo universale), frasi che suoneranno bene su Instagram ma non hanno alcuna aderenza con l’effettiva realtà delle cose. La direttrice di Quilette, rivista americana che si occupa di documentare la deriva totalitaria del wokismo, ha detto a proposito della Critical race theory (il capitolo del wokismo che si occupa di razzismo) che “l’etichetta di “teoria” non dovrebbe essere applicata a un gruppo di assiomi che hanno un livello di sofisticazione superato da molti bambini dell’asilo”. Questa sua semplicità apodittica, unita all’efficacia del ricatto morale e al timore di ripercussione professionali, è però precisamente anche la sua forza nell’ambiente informativo digitale in cui viviamo.

C’è anche un’altra questione che va considerata nel successo di Blm e del movimento woke presso le élite bianche occidentali (sappiamo dalle ultime elezioni americane come il wokismo stia allontanando l’elettorato nero dai liberal, è insomma del tutto controproducente rispetto ai suoi scopi ufficiali); da critica sociale il wokismo è passato a neo-religione primitiva per molti motivi ma anche, e forse soprattutto, per riempire un vuoto. Jordan B. Peterson, il più colto e lucido fra i critici dell’ideologia woke, è stato il primo a notare come questo culto sia esploso fra le fila dei figli dei baby boomer liberal, esponenti della classe media culturale occidentale in via di scomparsa – almeno dal punto di vista economico – individui privi di una seria posizione socio-economica nel mondo e di una religione, aperti all’universalità del desiderio ma con risorse limitate in maniera grottesca rispetto all’ampiezza delle loro aspettative, oltretutto afflitti spesso da un radicale senso di colpa per una vita vissuta sui patrimoni dei genitori. Una popolazione con delle caratteristiche ideali per il fiorire del fanatismo woke, fenomeno che delle religioni seleziona alcuni dei tratti peggiori ma se non altro ha il pregio di fornire ai suoi adepti delle mappe morali, una prospettiva di senso, per quanto con forti tratti persecutori e una intensa pulsione autodistruttiva. Il risultato paradossale è che oggi questa fascia di persone estromessa brutalmente dalla classe media sembra avere come prima preoccupazione politica l’esistenza di un patriarcato estinto in realtà ormai da decenni.

Un limite del dibattito pubblico occidentale nei riguardi dello studio delle religioni è il concentrarsi in maniera grossomodo esclusiva sulle violenze e le discriminazioni che le maggiori fedi hanno agevolato lungo la storia, dimenticando spesso di aggiungere all’equazione anche i loro effetti benefici, come la riduzione della conflittualità interna, lo sviluppo di un’etica pubblica e quello delle arti, solo per citarne alcuni. Lo stesso concetto di uguaglianza fra gli esseri umani era un’assoluta novità storica quando fu introdotto dal cristianesimo. Questo buttare via il bambino con l’acqua sporca ha fatto in modo che si sottovalutasse l’alto tasso di antifragilità contenuto nella tradizione, il fatto, in sostanza, che le religioni, essendo stratificazioni secolari quando non millenarie di strategie di sopravvivenza evolutive, siano passate attraverso un meccanismo di affinamento e miglioramento lunghissimo, orientato a eliminare gli eccessi e selezionare gli aspetti più stabili. Ora, tutto questo è difficile da cogliere non solo per un discorso storiografico ma anche perché i cambiamenti tecnologici degli ultimi due secoli hanno totalmente mutato il nostro immaginario, relegando progressivamente le religioni tradizionali in un angolo piuttosto tristanzuolo e celebrando a senso unico il nuovo. Ci sono poche cose che oggi appaiono così fuori dal tempo e uncool come un prete, forse solo un prete che cerca di rimanere al passo coi tempi. Consolerà forse i credenti sapere che le cose non vanno poi tanto meglio per i filosofi atei: il presente è più che religioso, è bigotto di un bigottismo nuovo. Il punto è che non sa di esserlo. L’immaginario va tutto in una nuova direzione come dimostra il felice matrimonio fra le industrie della moda e dello spettacolo con il wokismo. Il tribalismo e la discriminazione si coprono con le pelli del loro contrario, si ammantano di valori che in realtà rinnegano. In questo sta tanta parte della sua insidiosità. Il wokismo ha, come ho sostenuto qui sopra, i tratti di una religione estremista e radicale, ma è anche un fenomeno giovane a sufficienza perché gli manchi quel lungo percorso evolutivo che lo porterebbe o a estinguersi o a mitigarsi, a migliorare cioè la propria sostenibilità.

Religione laica senza una storia alle spalle, il woke al momento ricorda per certi aspetti quei meccanismi infernali di pensiero – la gara a chi è più puro, la delazione come regola, l’idea di creare da zero un’umanità nuova – che hanno contraddistinto i totalitarismi del Novecento. In “Arcipelago Gulag” di Solgenitsin vediamo in atto molti meccanismi simili a quelli implementati dal wokismo e della cancel culture, con la principale differenza che a oggi mancano al woke gli esiti violenti. In compenso sono già in atto la spogliazione delle persone dei loro diritti, della loro dignità professionale e la caduta nell’ignominia e nell’impossibilità di svolgere il proprio mestiere per essersi macchiati di quelli che sono sostanzialmente reati di pensiero. Tutto questo è un attacco alle fondamenta della società liberale occidentale, rispetto alla quale il diffondersi del wokismo – con i suoi ricatti morali subdoli, la sua alleanza con le forze produttive, la sua doppia morale – è una minaccia esistenziale con pochi precedenti, un ritorno al fascino antico della tribù. E’ difficile tuttavia che il wokismo duri a lungo nel tempo, gli esiti più probabili sono la sua graduale estinzione o un rafforzamento della sua egemonia culturale che molto probabilmente porterebbe, per effetto della sua elevata tossicità, al definitivo tramonto dell’Occidente. In entrambi i casi difficilmente potrà essere un fenomeno duraturo nei termini in cui si presenta oggi: nessuna società può reggere una deriva al contempo ultra-ideologica, anti-scientifica, anti-religiosa e tribale; non le rimarrebbe niente su cui basarsi e finirebbe per mangiarsi da sola. La prima opzione, l’estinzione del culto, è naturalmente quella che mi auguro, ma in ogni caso non si tratterà di un processo rapido e perché accada sarà necessario l’emergere di un nuovo sistema di senso che rinnovi le promesse illuministiche non solo nelle menti ma anche nei cuori. Un compito che oggi appare di una difficoltà assoluta. C’è, insomma, più di qualche motivo per non prendere affatto alla leggera il dilemma dell’inginocchiamento e ce ne sono di certamente validi per rifiutare l’equivalenza anti-woke=razzista. Il più delle volte è vero l’esatto contrario.

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IL PARADIGMA CHIARA FERRAGNI http://www.danielerielli.it/chiaraferragni/ http://www.danielerielli.it/chiaraferragni/#comments Wed, 08 Jan 2020 09:27:24 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4367 Continua a leggere]]> (una versione più breve di questo pezzo è uscita sull’inserto culturale de Il Foglio il 4.01.2020 – Foto LaPresse)

Rispetto a Chiara Ferragni le reazioni più comuni sembrano essere due: interesse accompagnato da quella trasognata ammirazione di superficie che si riserva alle vite inaccessibili ai più (sul genere insomma delle “vite dei reali”, ma modernizzato) oppure l’odio generato dall’invidia, dal rancore, dall’esclusione. Personalmente credo di far parte di una terza fazione, la minoranza, comunque cospicua, di coloro che messi di fronte al racconto articolato su più canali della vita di Chiara Ferragni più che odio provano soprattutto noia.

La visione del documentario prodotto da Amazon Chiara Ferragni Unposted mi risulta cioè prima di qualsiasi altra cosa noioso in forma davvero quasi insopportabile mentre – sembra assodato anche dall’esistenza del documentario stesso – milioni di persone dentro questi brandelli di pose, sezioni di vite quotidiane e problemi che si fa anche fatica a chiamare tali (quali scarpe mi metto? Queste o quelle?) devono senz’altro vederci un valore d’intrattenimento. Un mistero che invita alla riflessione visto che la risposta “sono tutti idioti” non è una risposta quanto piuttosto, questa sì, un’idiozia. Quello che segue è quindi un umile tentativo di decifrazione.

Prima di tutto Chiara Ferragni è simpatica, di una simpatia semplice da ragazza lombarda comune e con un forte accento. Come la maggior parte delle icone pop la Ferragni sembra un po’ più intelligente della media (non geniale ma certo non stupida), un po’ più bella della media (non di una bellezza paralizzante ma certo non brutta), dotata di amiche che parlano proprio come le tue amiche e di quegli amici gay e cool che tante ragazze di provincia vorrebbero avere per sentirsi nella grande città o dentro una serie tv. Se la rockstar di un tempo era una persona dotata di almeno un talento artistico eccezionale e grazie a esso aveva accesso a una vita pazzesca, Chiara Ferragni è più simile alla tua amica carina scaraventata dentro una vita da star senza che si capisca bene il perché. O almeno questo è il messaggio. Dentro questa vita pazzesca la Ferragni fa esattamente quello che farebbe la tua amica. È il vecchio archetipo from rags to riches del cinema hollywoodiano o la riproposizione del gioco a premi televisivo. Perché Chiara Ferragni potresti essere anche tu e senza bisogno di imparare a cantare o recitare o, ancora, ricevere in eredità milioni di dollari. Non è vero, ma tutto cospira per fartelo pensare.

In un piccolo siparietto la Ferragni racconta, subito prima di incontrare Paris Hilton, di aver letto un libro in cui l’ereditiera insegnava come essere una milionaria. Quello che conta però è la battuta successiva dove la Ferragni dice pressappoco “tralasciando il fatto che devi avere i milioni”. Scena successiva davanti alla casa über-kitsch dei cani della Hilton e Fedez chiede, in italiano, “Ma ci pagate l’Imu?”. In un’altra scena una modella saluta la Ferragni e subito Fedez fa un video in cui dice “e poi lei ha salutato Chiara e anche me” tutto emozionato. La cifra dunque è evidente: sono due simpatici inadatti, fanno cose semplici e sono inopportuni quanto l’italiano che diventiamo più o meno tutti quando siamo all’estero. Permettono di sognare cose banali ma proprio per questo condivise. Soprattutto hanno creduto in sé stessi quando tutti li criticavano e guarda ora dove stanno. Insomma, successo a parte, sembrano quasi identici al loro pubblico.

La seconda caratteristica della vita da star senza essere delle star in un campo specifico è che Ferragni e il suo staff sembrano dei travet in trasferta. Tutti MacBook e pianificazione, sono prima di tutto imprenditori dell’immagine, il sogno milanese nella sua accezione più diligente. Stanno a Los Angeles o a Miami ma non danno mai l’impressione che finite le riprese si drogheranno, faranno del sesso di gruppo, né berranno molto o faranno altre cose stupide ma epiche per poi ritrovarsi il giorno dopo in un hangover clamoroso a sorvolare l’oceano su un volo privato e pensare alla semplice, rassicurante ma ormai irrimediabilmente lontana, ingenuità dei loro giorni poveri. Questi cliché sulla vita da star appaiono irrimediabilmente sorpassati.

Ferragni e i suoi sembrano perfettamente pacificati, capaci di vivere adagiati e iper-professionali sopra un inesauribile flusso di endorfine, like, consigli di amministrazione e branded content, la tristezza appare una sensazione confinata, in dosi omeopatiche, a quei giorni in cui hai poche proposte di sponsorizzazione. Per capirci, il trauma fondativo nel documentario è il divorzio dei genitori, first world problem per antonomasia. L’unico nemico sono gli haters, categoria sommamente fastidiosa, è vero, ma ormai lo sanno anche i bambini: è soprattutto gente che rosica.

Questa medietà positiva e inoffensiva, senza scossoni, è precisamente quello che piace ai brand che vogliono accesso ai milioni di followers senza complicazioni: messaggi semplici, controllati, mai controversi, il più possibile universali, quindi minimi. I due livelli, verità e finzione, sembrano fondersi fino a perdersi l’uno nell’altro grazie al minimo comune denominatore della medietà assoluta. Non la medietà economica o di riconoscibilità – si capisce che non è questo il caso – ma la medietà di pensiero nel senso di complessità del rapporto con l’esistenza. Bisogna prendere in considerazione l’ipotesi che il documentario non dica in fondo molto su Chiara Ferragni non tanto per le mancanze della regista quanto perché forse non c’è molto altro da dire e che questa mancanza di contenuti associata a un’amabilità di superficie – a matrice universale – sia precisamente l’origine del successo planetario della protagonista e in fondo sia anche l’unico tema che valesse la pena di affrontare parlando della Ferragni.

Che una narrazione appaia del tutto priva di polarità negative è però una sorta di novità storica. Ogni cultura umana è stata sempre caratterizzata trasversalmente dalla convinzione che l’atto fondativo del raccontare storie avesse bisogno di una certa dose di drammi e di ostacoli, di difficoltà e di sconfitte, assieme a qualche vittoria strategicamente posizionata. L’empatia che le storie sono in grado di generare si è sempre basata anche sulla condivisione della difficile condizione umana. Si conquista Troia, sì, ma a che costo. Si raggiunge la Terra Promessa, ma non è un viaggio che rifaresti volentieri. In questa specie di racconto a bassissima intensità che invece è la vita condivisa di Chiara Ferragni non c’è traccia di autentica drammaturgia (l’apice sono degli eventi rappresentati come monadi perfette e confezionate: il matrimonio, la nascita del figlio), c’è in compenso una ragazza un po’ sopra la media per alcuni aspetti che parla ossessivamente di sé, articola la sua visione del mondo in assunti che paiono presi di peso dai dialoghi di una soap.

Un codice verbale il cui apice si raggiunge nella ricostruzione dello scontro/cancellazione dalla vita della Ferragni del primo fidanzato e co-fondatore del piccolo impero aziendale, un episodio che si articola su un numero quasi letale di frasi fatte del tipo “non conosci mai veramente le persone” o il momento in cui lei confessa al collaboratore che se è riuscita superare questo (ovvero la nascita del primo figlio) può superare qualsiasi altra asperità. Al mondo nascono ogni anno circa 130 milioni di bambini, la nascita di quello della Ferragni però più che come un fatto umano con una sua importanza emotiva ed esistenziale viene tratteggiato con la deferenza reverente con cui si narrerebbe un evento che divide le acque. Il risultato è una caricatura, una soap opera, appunto.

Chiara Ferragni si muove per luoghi iconici, indossa vestiti costosi e per alleggerire il tutto non perde mai la sua già citata inadeguatezza da ragazza di provincia. Per altro anche nel vestirsi non sembra seguire una direzione stilistica precisa o, parrebbe, conscia. Nei filmini di famiglia della giovane Chiara si vedono viaggi in giro per il mondo e una bambina felice, tutto sotto lo sguardo costante di una telecamera. La sua vita da influencer appare come una continuazione monetizzata di quei filmati. Non sembra esserci in palio nessun altro valore aggiunto per lo spettatore oltre al piacere di osservare dal buco della serratura un tipo di felicità che sembra presa di peso dalle promesse delle pubblicità e che, infatti, diventa pubblicità a sua volta.

Forse conta che sia tutto immediatamente a portata di dito mentre le storie a cui eravamo abituati richiedevano tempo ed energie cognitive per essere consumate e comportavano l’esposizione ad effetti collaterali come l’emergere di una certa tristezza, della sensazione che la vita sia in fondo fin troppo dura o anche soltanto un po’ malinconica. È possibile che sia necessario allargare lo sguardo e pensare al tipo di fruizione che viene fatta dei contenuti prodotti da un influencer: spezzettati e inframmezzati alla vita del follower, quasi senza una vera soluzione di continuità.

Un’ipotesi è quindi che il racconto della Ferragni sia perennemente positivo e non conosca polarità negative perché queste ultime sono già contenute, e in abbondanza, nella vita dei possessori dei telefoni dove scorre la sua vita idealtipica. L’atto di sbloccare l’iPhone ogni dieci minuti, spiare Instagram e poi rimettere tutto in tasca mentre il capo parla, finisce quindi per far sbiadire ulteriormente, fino quasi a scomparire, i confini fra la realtà e la rappresentazione. Secondo questa direzione d’indagine la vita della Ferragni e dei suoi colleghi sarebbe l’ultima versione disponibile, la più avanzata, di quella sorta di opera d’arte totale che nasce dalla progressiva unione di autore e fruitore.

Osservando quindi dalla giusta distanza l’immutabile legge della narrazione sembrerebbe ristabilita: la vita è difficile ma ci sono anche dei bei momenti. La differenza è che si tratta di un racconto scisso: l’influencer porta all’economia della storia solo le polarità positive, mentre il follower apporta le polarità negative. Dall’unione nasce la storia condivisa: l’influencer è sempre anche un po’ un amico virtuale.

Ma che dire della polarità positiva? Avanza nella mente dello spettatore del documentario l’ipotesi finale, quella più angosciante, ovvero che questi giovani e abili imprenditori della medietà siano in fondo perfettamente felici così – nel loro perenne stato di negazione di qualsivoglia difficoltà – e che tutta quella insoddisfazione e ineliminabile turbamento che hanno accompagnato la storia umana fossero in fondo una questione di cattiva organizzazione. Fossero cioè l’eredità di padri e madri che crescevano i figli dentro paradigmi culturali disfunzionali, della mancanza di medicinali, di cattiva alimentazione o di stili di vita scorretti, abuso di droghe, poco movimento fisico, nessun like sui social, redditi troppo bassi. Risolte tutte queste cose – nel caso dei like risolte alla grande –, disciolta ogni ideologia con le sue inevitabili incrostazioni, gli ostacoli alla felicità sembrano improbabili o, meglio ancora, del tutto incomprensibili. La chiamavano poesia, ma era indigestione, parlavano di tragedie ma la realtà è che non avevano un buon personal trainer. È un’ipotesi che prende piede ogni giorno di più in Occidente e, bisogna concederlo alla scienza, nemmeno fra le più assurde.

Alla fine arriva però l’unico momento di verità del documentario a smentire l’ipotesi di una novità antropologica così radicale, l’idea, cioè, di una pacificazione assoluta. È la confessione – in lacrime – dell’ansia esistenziale di Chiara Ferragni rispetto alla prospettiva di non essere nessuno, di non lasciare un segno in questo mondo. Un turbamento con il quale per la prima volta è possibile sentire qualcosa che risuona (il richiamo profondo di una verità sulla condizione umana), una tensione che la Ferragni risolve con una strategia perfettamente simbolica del tempo storico: di fronte alla sua assoluta intercambiabiltà, alla sua mancanza di talenti che giustifichino uno stato di eccezionalità, Chiara coagula abilmente consenso attorno al racconto di una medietà assoluta e attraverso questo consenso, questo esercito di like e di occhi in osservazione da rivendere ai brand, raggiunge uno stato di decisa negazione della medietà: diventa una star. I fan la amano, ma se c’è proprio una cosa che Chiara Ferragni non voleva nella vita è essere come i suoi fan. I fan, d’altro canto, sono d’accordo: non è un granché essere loro. Complessivamente il messaggio è di un nichilismo assoluto e come tale perfettamente in tono con l’epoca. Va da sé che come detto la Ferragni sia in realtà un po’ sopra la media in praticamente ogni campo, ma giusto quel tanto che basta per rimanere comunque credibile nella recita della medietà assoluta.

Questa recita digitale della medietà come via maestra per lo stato di eccezione, per il raggiungimento di fama e di riconoscibilità – la negazione esatta della medietà anonima – sta al cuore della nostra epoca, è lo stesso meccanismo alla base del consenso dei politici populisti e rappresenta l’uso più efficiente dell’ecosistema digitale. È la differenza che si crea nell’atto di negare ogni differenza. La tecnologia, ancora una volta, dà la forma alla sovrastruttura culturale, la determina in maniera ineluttabile. Alla fine della visione del documentario ho ripescato questa poesia di Michel Houellebecq, perfetta, credo, per chiudere un pezzo su Chiara Ferragni unposted:

Sono in un sistema liberale

Come un lupo in un terreno incolto,

Mi adatto relativamente male

Cerco di non fare storie.

(…)

Sono a metà delle vacanze

Come un attore senza sceneggiatura,

Ma so che altri danzano

E che si riprendono con la telecamera.

Qualche storia, tuttavia, mi sembra qui di averla fatta.

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succession-serie-tv-1

da Il Foglio del 20/12/21

In questo momento nessuna serie tv fonde realtà e finizione meglio di Succession, il prodotto di punta di Hbo la cui terza stagione si è appena conclusa con due puntate girate interamente in Italia, fra Toscana, Milano e Lago di Como. Nata dalla penna di Jesse Armstrong la serie racconta le vicende di una famiglia – i Roy – a capo di uno dei più grandi gruppi mediatici del mondo, un clan pensato, almeno inizialmente, per assomigliare a quello dei Murdoch. Come nel caso dei Murdoch l’impero è globale, c’è un figlio di primo letto praticamente estraneo al business (nella serie è Connor, un anarco capitalista non dei più brillanti) e tre figli di secondo letto chiamati a contendersi il business del padre.

Le analogie non si fermano qui: Waystar-Royco, il gruppo dei Roy, possiede l’ATN, un canale d’informazione conservatore che assomiglia a Fox News, compra Vaulter, un’azienda digital che ricorda Vice, e viene coinvolta in uno scandalo che sembra alla lontana quello delle intercettazioni che coinvolse i Murdoch in Inghilterra. Elementi caratteriali e cenni biografici dei Murdoch si ritrovano anche nei singoli personaggi di Succession, mischiati però a cose inventate o prese dai membri di altre grandi famiglie del mondo dei media. Sappiamo che Elisabeth Murdoch è una fan dello show, così come lo è Jerry Hall, la quarta moglie di Rupert, il che è rilevante specie se si considera che non si tratta in alcun modo di una serie agiografica.

Ogni cosa in Succession è studiata al millimetro, esistono pagine Instagram che censiscono ogni singolo capo d’abbigliamento o accessorio che appaia nella serie, sono studiati persino gli sfondi degli iPhone dei protagonisti anche se in video appaiono solo per una frazione di secondo, così come ci si può fare qualche risata mettendo il fermo immagine e guardando i sottopancia dei servizi ATN che appaiono sui televisori sullo sfondo di alcune scene. Al di là degli easter eggs per i maniaci, lungo le sue tre stagioni la serie ha creato tutta una serie di stilemi che contribuiscono alla sua immediata riconoscibilità. Prima di tutti il grande sfoggio di aerei, elicotteri e yacht privati grandi come navi da crociera. I mezzi produttivi di Succession sono faraonici ma, seppur centrali alla ricostruzione della vita di una famiglia di miliardari, da soli non basterebbero: è la cura nella psicologica dei personaggi ciò che rende Succession il miglior show televisivo del momento.

Il padre, Logan Roy, è l’uomo che ha costruito l’impero; ormai ottantenne e con una salute malferma deve nominare un successore. Uomo spregiudicato, straordinariamente abile nelle trattative, nelle politiche di acquisizione e nei rapporti con la politica, Logan è tutt’altro che stupido ma non riesce a farsi una ragione delle diverse fragilità dei suoi figli, né a instaurare con loro un rapporto funzionale.  Tolto “l’idiota” Connor, i tre figli papabili per la successione hanno tutti problemi apparentemente insormontabili: il maggiore, Kendall, ha studiato a lungo la materia ma ha avuto anche problemi con le droghe e, più rilevante, manca di killer instinct e forse anche di lungimiranza imprenditoriale. Kendall è anche il re incontrastato di un sentimento contemporaneo il più delle volte evocato a casaccio ma che nel suo caso è invece perfettamente adeguato: il cringe, ovvero lo stato d’animo che evoca colui che non coglie la sua inadeguatezza o si produce in comportamenti che non hanno alcun senso in un determinato contesto, come mosso da un segreto desiderio di auto-umiliazione.

Il secondo figlio è Roman, tagliente come uno stand up comedian e probabilmente il più intelligente dei tre dal punto di vista del business, è però anche quello che un tempo si sarebbe definito “un degenerato”: onanista compulsivo, è molto attratto dalle donne più anziane con cui lavora e per nulla da quelle più giovani che frequenta. Per quanto basti sempre molto poco per liberarsi di lui, di questi tempi Roman è una specie di bomba sul punto di esplodere e vive protetto da un cordone sanitario di costosi NDA (accordi di riservatezza) che gli avvocati di famiglia fanno firmare alla persona di turno. Ha inoltre un gigantesco complesso di inferiorità verso il padre che non gli permette di confrontarlo direttamente.

Non va meglio con Shiv, la figlia femmina è un coacervo di contraddizioni persino peggiore dei fratelli. Inizia la serie lavorando come stratega per dei politici democratici che vedono suo padre come Satana, Shiv pensa di essere molto più intelligente di quello che realmente è, ha un marito-trofeo che tradisce e tratta come uno schiavo castrato. Rispetto ai fratelli manca anche di capacità di analisi perché è accecata da un moralismo woke che le impedisce di vedere la realtà delle cose, ma, per sua sfortuna, non le impedisce di credere di averle capite meglio di tutti, il che la conduce regolarmente a risultati disastrosi.

La successione al trono avviene in un periodo in cui l’espansione durata decenni della Waystar-Royco si è fermata per via del successo sul mercato delle aziende tech che rubano ai media tradizionali gli “eyeballs”, ovvero le paia d’occhi, il tempo d’attenzione: l’oro della contemporaneità. Insomma i figli si fanno la guerra per prendere il controllo di una nave che sta rapidamente affondando. Posizionandosi in un punto decisamente strategico della storia – quello del passaggio dalla società della tv e dei giornali a quello del digitale e delle piattaforme – Succession racconta una crisi che tolti i gli aerei privati, le ville e gli altri lussi, assomiglia a qualcosa di cui molti hanno fatto o stanno facendo esperienza: il rallentamento complessivo dell’Occidente, la brusca riduzione delle aspettative, una lampante iniquità generazionale, seppur vissuta generalmente nel confort.

Succession tuttavia non è una serie moralista o di denuncia è qualcosa di più simile a un dramma shakespeariano declinato nella modernità e con frequenti incursioni nella dark comedy. Che il tono della serie sia complesso e articolato si capisce anche dai pareri degli attori: secondo Kieran Culink (Roman Roy) è una commedia, secondo Jeremy Strong (Kendall Roy) è un dramma. La verità è che hanno ragione entrambi e l’abilità di Jesse Armstrong e della sua writer’s room nel far convivere armoniosamente i generi senza scivolare nel grottesco ha dell’impressionante.

La modernità di Succession non sta però solo in questo compenetrarsi dei generi – una caratteristica comune a molte delle migliori serie della golden age della tv – ma anche nella capacità di utilizzare degli archetipi profondi ed eterni raccontando fatti, realtà e linguaggi strettamente contemporanei. Tutta la serie è intrisa di riferimenti alla mitologia e all’età classica, dal figlio Roman saltuariamente chiamato dal padre Romulus, ai discorsi alla memorabile cena con la famiglia rivale dei Pierce, snob possessori di un gruppo mediatico progressista che i Roy stanno cercando di acquisire, fino agli elmi corinzi nell’ufficio di Logan e alla puntata intitolata “Argestes” dal vento greco che spazza le nuvole. Succession vive del contrasto fra queste premesse archetipali, profonde, eterne e dialoghi che alternano battute troppo acute e intelligenti per essere vere – alla Aaron Sorkin, cioè – a momenti di profonda, realissima, inadeguatezza contemporanea. Non è un caso che nella terza stagione due puntate abbiano lo stesso titolo di libri per bambini e in una scena Logan legga a un nipote una storia che ricorda le vicende di Kendall, suo figlio e il padre del bambino.

Gli eredi Roy sono precisamente bloccati nel rito di passaggio contenuto all’interno del mito, sono prigionieri di un’infanzia infinita, una condizione di cui non hanno però alcuna contezza, il che naturalmente non fa che peggiorare la situazione. La differenza dei dialoghi iper-intelligenti delle serie di Aaron Sorkin (The Newsroom, The West Wing) e quelli che in parte occupano Succession è perciò che i secondi sono paradossali perché non sono pronunciati da persone con capacità super umane che dominano gli aspetti più difficili dell’esistenza, bensì da falliti intelligenti, persone che hanno un surplus di educazione, sì, ma che sono anche vacue e modaiole, abilissime nel cogliere le tendenze – anche aziendali – del momento, le parole chiave, così come conoscono il riferimento middle o high brown di turno, ma sono anche del tutto prive di consistenza, di quelle virtù istintive e di quella stabilità emotiva necessarie per agire nel mondo. Nonostante tutti gli sforzi e l’infinità dei mezzi sono come rotti in partenza.

Non a caso Logan Roy, ovvero colui che ha costruito tutta la baracca, indugia molto raramente nell’ironia, che deve sembrargli niente di più di una comoda via di fuga. La tragedia degli eredi Roy è anche il fatto che, al contrario del fratello Connor, continuano a provarci, girano come criceti su una ruota dalla quale non hanno alcuna reale possibilità di uscire. Il grande non detto della serie è infatti che si tratta di tre miliardari ormai quasi di mezza età che invece di ritirarsi a vita privata si affannano a lavorare solamente per ottenere l’approvazione del padre. I soldi, onnipresenti, contano per loro solo in quest’ottica.

Il dramma di questi tre iper-ricchi così diversi dal pubblico di spettatori genera comunque empatia anche grazie alle tecniche registiche che alternano inquadrature curate, da film d’autore, ad altre in P.o.v. (Point of view) che sembrano lo sguardo in prospettiva di un misterioso personaggio che non vediamo mai in faccia ma è sempre seduto a tavola, in aereo o in macchina con la famiglia Roy. Sovente la testa o la spalla di qualche altro personaggio gli ostruisce parzialmente la vista e questi sguardi in prima persona, quasi spiati, sono uno degli espedienti usati per generare presenza e un senso di vicinanza alla famiglia nello spettatore. Finché ci troviamo seduti in mezzo a loro passiamo volentieri sopra al fatto che ogni tanto i Roy si facciano scappare l’idea che i non milionari – quelli cioè che li hanno reso ricchi guardando i loro canali e leggendo i loro giornali – non siano “real people”, persone reali ma una specie di razza inferiore. Tutto l’impianto della serie è in un certo senso anche un’occulta macchina di seduzione faustiana.

Dal punto di vista stilistico Succession contiene inoltre continui riferimenti a pratiche, problemi e termini tecnici che solo una minima parte degli spettatori conosce, ma questo non è importante perché dalla nostra posizione di osservatori privilegiati ci basta guardare in faccia i personaggi per capire se una “Proxy battle” è una cosa positiva o meno per la famiglia. Ci basta vedere come reagiscono quegli esseri umani, le loro espressioni, le azioni che intraprendono. Questa è forse la lezione che sarebbe più facilmente trasportabile anche nelle narrazioni, non solo televisive, italiane in cui nella maggior parte dei casi tutto è sempre appiattito e iper-spiegato di proposito, con buona pace del realismo e della connessione profonda con i personaggi e con la scena. Certo, Succession è l’apice della tv cable, cosa molto diversa da quella generalista, ciò non toglie che in epoca di streaming certe lezioni potrebbero avere un valore più ampio.

La struttura è un altro elemento caratteristico di Succession, che è una grande serie soprattutto nel primo e negli ultimi due episodi di ogni stagione. Sempre scritti personalmente da Jesse Armstrong sono episodi dove i personaggi vengono tutti concentrati in un luogo – due matrimoni e una vacanza in barca – e i destini si compiono. Nelle puntate centrali invece la serie ha un andamento scomposto che nei momenti peggiori sembra la versione alta di una soap opera, con la frequente introduzione di personaggi che sembrano importantissimi per una o due puntate e poi di fatto spariscono, senza che vengano date spiegazioni. È quindi una serie a due velocità: la parte centrale serve da accumulazione psicologica e il plot sembra quasi sfaldarsi salvo però tornare poi solidissimo nell’ultimo atto.

Anche questa struttura però cospira al senso complessivo di Succession, che è una serie che poteva molto felicemente finire con la stupenda conclusione della seconda stagione e l’avvento al potere di uno dei figli: brividi sulla pelle dello spettatore, l’archetipo si compie, c’è un nuovo leone a capo della savana. Il mito ha esaurito la sua funzione perché ha guidato gli eventi nella realtà, si è rivelato profezia e pedagogia. Senonché non è questo lo spirito del tempo e la serialità televisiva, che è una delle sue espressioni più peculiari, vuole che il gioco riprenda ricominciando ogni volta dalla casella di partenza e i personaggi rimangano sempre bloccati nei loro drammi primigeni, senza una vera catarsi, senza soluzione, senza passaggio al livello successivo. O almeno alcuni personaggi, quelli più dentro quest’epoca storica dove crescere sembra vietato.

Il tema ritorna in molte opere contemporanee, si pensi ad esempio alla divertente “Strappare lungo i bordi” di Zero Calcare dove si lascia intuire che il tradimento della promessa di un’età adulta sia in fondo un mal funzionamento del sistema, il che è in parte vero ma non è certo tutta la storia. Succession porta lo stesso discorso a un livello più alto – lo stesso problema si pone anche con mezzi economici pressoché infiniti! – e utilizzando tutta la sua pluralità di mezzi espressivi e stilistici crea un’illuminante fusione di realtà storica e rappresentazione artistica.

Non è forse del tutto un caso che un attore della serie, Nicholas Braun (il cugino Greg) sia nella realtà pressoché identico al personaggio che interpreta o che Jeremy Strong (Kendall) durante le riprese che durano mesi non esca praticamente mai dal personaggio facendo infuriare cast e maestranze. Brian Cox, l’attore che interpreta Logan, il personaggio odiato da tutti ma sulla cui ricchezza tutti vivono, ha buon gioco a citare a proposito di questa tendenza del collega le parole di Laurence Oliver quando seppe che Dustin Hoffman dovendo interpretare un uomo privato del sonno non aveva dormito per tre notti “Caro ragazzo, perché non provi a recitare?”.

Così facendo però Cox finisce per assomigliare a volta al suo personaggio. Anche in questo sta la grandezza di Succession: è uno specchio in cui è molto facile riflettersi anche se racconta le persone potenzialmente più distanti da noi.

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Questa intervista è tratta da un più ampio approfondimento

di Claudia Consoli e Antonella Sbriccoli pubblicato sul sito di Mondadori

Cominciamo dal titolo per inquadrare il tuo monumentale romanzo. Quali sono secondo te le principali forme di odio del nostro tempo?

Nella nostra epoca sono finite le grandi narrazioni, le risposte univoche, le persone hanno la libertà e il peso (le due cose vanno sempre assieme) di cercare il proprio personale senso della vita. Al tempo stesso la società occidentale tende a eliminare dalla sfera della consapevolezza il dramma, la morte, il sacrificio e sembra avere un solo mandato imperativo: essere felici. Un’esortazione che arriva senza il libretto d’istruzioni, per così dire, ed è un vero lavoro dopo il lavoro, fenomeni come il turismo di massa, il ritorno del pensiero magico, l’individualismo spinto fino a una dimensione patologica sono solo alcune delle risposte diverse che vengono date a questo impegnativo – e storicamente nuovo – mandato culturale.

Questo quadro culturale si fonde con la rivoluzione digitale: internet, e in particolar modo i social network, hanno creato un nuovo piano orizzontale della comunicazione, dove chiunque può esprimersi pressoché liberamente e raggiungere potenzialmente grandi pubblici. In sostanza mezzi di comunicazione universali e nessuna gerarchia del discorso, anzi, una progressiva disgregazione del logos a favore di forme più immediate di comunicazione. Il risultato è la tensione che vediamo online, la tribalizzazione della società in bolle e clan che non comunicano fra di loro, si limitano ad odiarsi per partito preso, anzi è proprio l’automatismo nella direzione del loro odio a definire i confini del gruppo. L’esistenza di un pluralismo si dà solo all’interno di un quadro di regole condivise da tutti, regole che oggi sono sotto l’attacco del potere primordiale dei clan, la cellula primitiva della società umana che si ripresenta nella realtà digitale. In parte si tratta anche di un’illusione ottica dovuta alla pervasività dei mezzi di comunicazione digitale – in grado di illuminare tutto e moltiplicare all’infinito ogni segnale – perché complessivamente la nostra è una società dove la violenza fisica diminuisce, aumenta però – quasi esponenzialmente – quella verbale e simbolica, un avvitamento in cui estremisti e guerrieri del politically correct non fanno che rinforzarsi a vicenda. Non è detto che a un certo punto tutta questa energia che è nell’aria non si scarichi a terra.

Odio esplora a fondo alcuni temi chiave della contemporaneità, due fra tutti il modo con cui la tecnologia viene piegata ad ascoltare e misurare la vita intima degli esseri umani, e il commercio sfrenato dei dati, petrolio della rete.  Quanto credi che le persone siano davvero consapevoli di questi fenomeni? E cosa vorresti dire loro con il tuo romanzo?

 “Odio” è la biografia immaginaria, ma verosimile, di un giovane uomo con una storia da errore giudiziario alle spalle che si costruisce un posto di spicco – dopo aver iniziato la sua età adulta in tutt’altra maniera – in uno dei pochissimi settori che offrono grandi opportunità alle persone della sua generazione: il commercio di dati personali. Il libro ha molti strati, quindi il percorso professionale è solo una parte di una vicenda umana molto più complessa e articolata, ma la vera natura del suo lavoro, le sue potenzialità, sono all’inizio oscure anche allo stesso protagonista e questo dà la possibilità ai lettori di scoprirle assieme a lui. Non credo ci sia una consapevolezza diffusa su questi temi, forse dal punto di vista dei dati oggi viviamo in un periodo per certi aspetti simile a quello in cui non esisteva alcuna norma antinquinamento perché nessuno si poneva neppure il problema. In questo caso però non è detto sia possibile tornare indietro o anche solo creare delle norme efficaci: i dispositivi e le piattaforme che sorvegliano ogni istante della nostra vita sono ormai troppo pervasivi, ci servono a organizzare la vita, a lavorare, a essere raggiungibili, a stare con gli altri e ci danno in cambio importanti ricompense neurologiche in grado di generare dipendenza. Rinunciarvi del tutto in questo momento storico significherebbe condannarsi all’eremitismo, anche potendoselo permettere non è detto che sia una scelta auspicabile, in ogni caso è un prezzo enorme da pagare, il che non fa altro che evidenziare il potere smisurato dell’industria digitale.

Nel libro ci racconti che la più antica delle tecnologie umane è il capro espiatorio. Quali sembianze prende nel tuo libro e nella società che descrivi – così attuale e distopica allo stesso tempo?

Nella crisi del logos in occidente di cui parlavo prima, c’è anche la crisi di tutto l’apparato deputato a creare senso all’interno di una società: c’è scarsissima fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica, un forte declino della diffusione di religioni e ideologie unificanti. Tutto questo è accompagnato dall’emergere di una concezione post-modernista della verità secondo la quale ogni gerarchia interna alla società è il frutto esclusivo di una lotta amorale per il potere.

Si può vedere questa tendenza in azione a molti livelli, dalle università anglosassoni dove le persone non sono più considerate come individui dotati di diritti inalienabili e uguali di fronte alla legge ma come membri di questa o quella maggioranza/minoranza, gruppi che li definiscono in toto, oppure in quei movimenti populisti che denunciavano (almeno finché non sono andati loro al potere) la corruzione costitutiva di ogni politica, o, a un livello ancora più immediato, si ritrova in quei genitori che insegnano ai loro bambini che non ci sono regole ma solo la capacità di farsi rispettare, a qualsiasi costo.

Sono solo tre esempi della stessa disgregazione di un senso condiviso, un mutamento filosofico su cui si è innestata, a fare da moltiplicatore, la rivoluzione digitale che ha reso possibile il piano orizzontale del discorso di cui parlavo prima. A questo punto ci troviamo in una situazione che ricorda per alcuni aspetti – non tutti, è una tendenza, non ancora una realtà compiuta – lo stato pre-civile di guerra di tutti contro tutti, una situazione in cui manca un principio unificante.

Nell’antichità l’uomo ha sempre risolto il problema di questa tensione mimetica fra individui diversi (tutti vogliamo le stesse cose che vogliono gli altri, ma le risorse sono limitate) attraverso il principio del capro espiatorio, una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Nel tempo la vittima viene santificata e diventa una divinità, fino a quando non si perde la memoria del sacrificio e rimane solo un nuovo dio, il ricordo della violenza collettiva è cancellato. Questa è la lettura del meccanismo fondativo del capro espiatorio che faceva l’antropologo francese René Girard: De Sanctis la sposa in toto dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale.

Come autore mi interrogavo da molto tempo sulla spietatezza che mostriamo sui social, sulla tendenza che abbiamo più o meno tutti ad accanirci su persone di cui in fondo non sappiamo niente, se non uno scampolo di informazione apparentemente controverso. Quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard (ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle sue tesi nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani), ho capito di essere sulla buona strada.

Orgoglio, angoscia, tensioni irrisolte, ambizione: Marco De Sanctis, il protagonista del tuo romanzo, è talmente complesso da apparire inafferrabile. È colui che nessuno conosce ma che ci conosce tutti. Com’è nato questo personaggio? E quali sono le cose che lui odia di più?

 Marco è un personaggio articolato e soprattutto in divenire, come ogni personaggio romanzesco che si rispetti il suo punto di partenza è molto distante da quello di arrivo e anche dalle posizioni che occupa nelle varie fasi della storia.

La sua caratteristica fondamentale credo sia la voglia di applicare la propria intelligenza al mondo, anche se questo significa per lui mettersi contro tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento e contro il suo gruppo di appartenenza. Non è un personaggio che fugge dal suo tempo, un topos molto praticato nella letteratura italiana contemporanea, bensì una persona che prova a dare una chance alla sua epoca, a entrarci dentro e poi accettare le conseguenze della sua scelta. Il dispiegarsi inesorabile di queste conseguenze è il romanzo.

Per quanto riguarda quello che odia, direi le persone incapaci di mettere in discussione le proprie credenze e, ancora di più, quelle che parlano continuamente di ideali astratti e nobilissimi e poi nella pratica si comportano come dei capi tribù.

Da questo punto di vista De Sanctis è di un’onesta intellettuale che qualcuno potrebbe trovare anche disturbante, perché in genere tutti ammantiamo le nostre vite di storie e storielle che ci aiutano ad edulcorare la dura realtà delle cose, lui invece sembra essere costitutivamente incapace di questo movimento cosmetico. Lui stesso è quindi la prima vittima di questa intransigente lucidità perché la vita di uomo fuori dall’atto di raccontarsi storie è davvero molto dura. La sua teoria del capro espiatorio va letta proprio in questo senso: non è una teoria scientifica sulla realtà, ma una grande narrazione che fornisce a Marco degli appigli operativi, una mappa per un mondo che ne è privo.

Le mappe che la letteratura può ancora ambire a costruire sono esclusivamente mappe biografiche, esempi di esseri umani che qui e ora si confrontano con il loro tempo. La presa di un senso superiore, assoluto, universale, è ormai destituita di plausibilità se non come capacità di sentire il respiro del tempo e interrogarsi sugli obblighi di una biologia forgiata in milioni di anni di evoluzione, proprio là dove tutto sembra futuristico riemergono per questo istinti antichi: sono parte indelebile di noi. L’esergo al romanzo, una frase proprio di Girard, è chiaro a questo riguardo: “L’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura”. La tensione qui non è solo nei confronti del post modernismo relativista in cui si è formato intellettualmente il protagonista del romanzo e che diventa sempre più opprimente in Occidente attraverso il politically correct, ma anche verso il Mondo Nuovo in cui entra: quello della tecnologia, un ambiente che coltiva, in modo neppure tanto nascosto, l’idea di costruire un uomo radicalmente nuovo, un tentativo già provato molte volte nella storia della specie, sempre con esiti disastrosi. Questa volta però è un’operazione con qualche chance in più di riuscire perché ha dalla sua uno strumento potentissimo: la scienza. La biografia di De Sanctis – ovvero Odio – è sospesa precisamente fra queste tensioni, è il tentativo di una mappa personale: individuale, umana perché talvolta contraddittoria, in ultima analisi letteraria.

Anche la politica fa la sua comparsa tra le mille pieghe di questa storia. A volte è colei che manipola, altre viene manipolata. 
Esiste per te nel nostro futuro la speranza di coniugare politica e tecnologia in un modo sano o la tecnologia si è ormai irrimediabilmente trasformata nella principale arma di controllo politico?

La politica, come tutto il resto, si uniforma alle esigenze delle piattaforme sociali, se vuoi arrivare a un pubblico, essere premiato dall’algoritmo, devi conformarti alle loro esigenze che sono quelle di sfruttare gli istinti umani per tenere le persone più tempo possibile sul sito mentre gli viene somministrata della pubblicità. Questo significa semplificare e giocarsi alcune “monete” che in quell’ecosistema informativo funzionano meglio di altre, una di queste è sicuramente l’odio, l’altra è il suo apparente contrario, ovvero il moralismo, che poi è l’odio ricoperto da una presunta superiorità etica. Complessivamente è un sistema di incentivi che in politica finisce per premiare i cialtroni, a destra come sinistra. Oggi le parti politiche si scontrano con toni sempre più accesi, ma chi fornisce la matrice di questa nuova politica sono sempre le piattaforme. O obbedisci o non esisti e quindi non prendi voti. Lo stesso principio si può applicare a molti altri settori professionali, ma per quanto riguarda la politica ci stiamo giocando la democrazia occidentale come la conoscevamo per massimizzare i ricavi pubblicitari delle piattaforme. Questo, per me, è il principale tema politico della nostra epoca, il problema costitutivo, diciamo.

Nel libro Marco De Sanctis fa esattamente questo movimento, dopo aver lavorato per un po’ per la politica si rende conto che il vero potere oggi sta altrove, allarga lo sguardo dal dipinto alla cornice e si rende conto di quanto quest’ultima sia importante nel determinare il contenuto del quadro. Nel momento in cui il medium è diventato universale e si trova nelle tasche di chiunque, l’affermazione di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” ha assunto un grado di assolutezza sconosciuto nell’era delle emittenti radio televisive e della stampa.

Sentimenti e sessualità s’intrecciano lungo i salti temporali del romanzo e diventano a loro volta strumenti per esercitare il potere sugli altri. Esiste un esempio di amore “puro” all’interno di Odio? E, più in generale, può esistere secondo te amore slegato dalla dimensione di controllo? 

 L’amore è il principio unificante per eccellenza, è la forza di attrazione nascosta nella biologia, è il principio generatore posto al cuore della trama profonda della vita, è l’unica cosa a cui è possibile aggrapparsi in tempi di temi di Kaos, in particolar modo in un universo privato di dio l’amore rimane l’unico principio universale. Quanto al controllo, un personaggio ossessionato dal controllo in questo campo era il protagonista di Lascia stare la gallina, ma in Odio controllo e amore non sono temi che si incontrano, c’è questo amore autentico e profondo per una donna di nome Federica e una serie di incontri meramente strumentali, che giustamente De Sanctis definisce “incontri fra egoismi opposti”, che sono esattamente la cifra del sesso nel mondo post modernista, se ogni cosa è potere allora anche il sesso sarà una transizione di mercato in cui si organizza un negozio temporaneo fra quantità di potere compatibili, niente di più. In altri termini il trionfo dell’egoismo. La cosa è vista dalla prospettiva di un uomo, perché De Sanctis è un uomo ma potresti cambiare il suo punto di vista con uno femminile e non cambierebbe nulla. È una condizione trasversale. Non è un caso che solo quando De Sanctis abbandona questo genere di visione dell’esistenza che gli è stata insegnata all’università, s’immerge nella vita pratica e si apre alla possibilità che esistano delle trame immutabili nella storia della specie umana, si dischiude davanti a lui la possibilità di un amore autentico.

Decadente, ricoperta di spazzatura e dominata dai gabbiani: Roma è la quinta scenica del tuo romanzo e ci ricorda le atmosfere da fine impero. Come scrittore che rapporto hai con questa città?

Per una persona nata e cresciuta al Nord, seppur con un genitore del profondo Sud, Roma è, soprattutto all’inizio, una creatura molto sfidante, ci sono tutta una serie di cose che in altri posti sono semplicissime che a Roma diventano di una complicazione notevole, il lavoro di vivere diventa un compito estremamente impegnativo, la quantità di cose che non funzionano è talvolta annichilente. Detto questo se si cambia paradigma culturale, si rallenta il ritmo di vita, si assume un atteggiamento più fatalista è un posto dove si può anche arrivare a vivere bene, la bellezza credo che nessuno la metta in discussione e in fondo sono anche contrario all’idea che tutti debbano uniformarsi all’impersonale paradigma efficentista del capitalismo anglosassone – distruggendo millenni di storia culturale in ogni parte del mondo – e quindi se pure apprezzo molto l’organizzazione e il cooperativismo emiliano devo riconoscere che c’è una forma di resistenza allo Zeitgeist anche nel familismo romano, nell’indolenza come regola di vita. In un certo senso in Occidente Roma è la cosa più simile al residuo di un’epoca precedente, anche questo la rende una specie di organismo vivente inafferrabile che sembra davvero in grado di dare l’illusione dell’eternità. È una città che spesso ti fa arrabbiare e poi però è in grado di darti ricompense del tutto inaspettate, è la perenne eccezione alla regola. Questo è anche il motivo per cui Marco De Sanctis la sceglie come sede per la sua azienda, gli piace l’ironia della cosa ma anche quella specifica tonalità umana che di certo non potrebbe più trovare a Londra.

Sei autore di romanzi, testi teatrali, reportage e sceneggiature: come convivono nella tua esperienza le tante forme della scrittura? E ce n’è una che senti più tua?

Il romanzo, senza dubbio. Le altre forme di scrittura che citi possono essere divertenti e appaganti, servono ad acquisire informazioni non solo sulle cose ma anche sugli uomini e a sviluppare le proprie capacità ma il romanzo è la forma più completa dove la mia ricerca si può esprimere più a fondo e senza mediazioni.

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ODIO è su:

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I miti non moriranno mai, la letteratura si vedrà. http://www.danielerielli.it/i-miti-non-moriranno-mai-la-letteratura-si-vedra/ http://www.danielerielli.it/i-miti-non-moriranno-mai-la-letteratura-si-vedra/#comments Tue, 29 Jun 2021 15:02:10 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4818 Continua a leggere]]> obj92578071_1

Questo pezzo è apparso su Domani il 24 maggio e fa parte del dibattito Su Contro l’impegno” di Walter Siti (Rizzoli)- Illustrazione di Doriano Strologo. 

“Contro l’impegno” di Walter Siti è un saggio colto e profondo che risulta, non senza una certa ironia, più “necessario” di tanti libri che vengono presentati come cure per questa o quella patologia sociale. Essendo sostanzialmente una raccolta di interventi (editi e inediti) non è un libro particolarmente sistematico ma questo non significa che manchi di una sua coerenza, di un suo spirito unitario. Personalmente indentificherei questa unità non tanto con la polemica contenuta nel titolo – quella contro l’impegno – quanto con quella più ampia contro il paradigma dell’efficacia – immediata, commerciale, di corto respiro – come criterio per giudicare un’opera letteraria. L’efficacia va quindi qui intesa non solo come politica ma anche, e forse soprattutto, come di mercato e neurologica, nel senso cioè dell’essere in grado di fornire rapide ricompense cerebrali al lettore, soprattutto ricompense positive, come quelle che scaturiscono dalla sensazione di appartenenza a un gruppo, dalla consapevolezza di poter vantare una netta superiorità morale sul resto del mondo o dal postulare che la vita sia tutto sommato bella e meritevole di essere vissuta, forse persino potenzialmente giusta. Il distinguo non è banale e nella prima parte del suo libro Siti compie quindi un’analisi delle condizioni di ricezione delle opere nel nostro tempo storico, stigmatizzando l’approccio frettoloso che deriva dal mutato ecosistema informativo – oggi istantaneo, parcellizzato, costitutivamente superficiale ed emotivo – , un panorama in cui i tempi lunghi e le ricompense differite della letteratura appaiono anacronistici, cosi come sembra fuori sincrono la richiesta dei romanzi letterari di essere letti e assimilati nella loro interezza, forse persino macerati nel tempo e rifrequentati durante le diverse fasi di una vita.

Siti non ne parla ma sarebbe stata interessante anche qualche parola sulla letteratura da incipit, libri cioè che diventano oggetti posizionali (da esibire in salotto, da citare in conversazioni) sulla base delle prime pagine, le uniche, sembra, che i più abbiano ormai il tempo di leggere, tanto che una parte importante del mercato editoriale pare ormai essersi orientato oltre che verso i libri brevi – di rapida e indolore lettura – anche alla ricerca di grandi incipit forse più che di grandi libri (si pensi a Ohio di Stephen Markley, romanzo con uno splendido primo capitolo che si rivela poi decisamente fuori scala rispetto al resto del libro). Siti parla in compenso della sparizione dei finali e del declino della “spina dorsale” nelle opere letterarie “alte”, confinate alla frammentazione totale o alla non-selezione dell’oggetto narrativo (come nel ciclo “La mia lotta” di Karl Ove Knausgård).

Il discorso è molto interessante e potenzialmente fecondo ma con una scelta non scontata Siti preferisce dedicarsi ad un’analisi minuziosa di autori che sono più pop che letterari come Saviano, D’Avenia o Catozzella e prendere sul serio i saggi di Michela Murgia. D’altronde è lì che si annida il tentativo contemporaneo, spesso goffo, di creare una nuova mitologia su basi ideologiche, un’operazione che è precisamente il contrario della letteratura, se per letteratura intendiamo, come sembra fare Siti, un’indagine profonda sull’uomo, una ricerca capace di andare oltre gli schieramenti sociali e le appartenenze contingenti, disinteressata, cioè, a marcare continuamente la sua ortodossia politica e orientata piuttosto ad immergersi nella polisemia dei significati, abbracciare la contraddizione insita nello stare al mondo.

Il confronto che Siti imbastisce è dettagliato e civilissimo, come già detto prende sul serio anche cose su cui forse non si farebbe del tutto peccato a coltivare qualche dubbio, questo però rende “Contro l’impegno” un libro piacevole in questo tempo di contrapposizioni frontali e odi efferati. Viene comunque da chiedersi se sia veramente necessario tutto quell’inchiostro per dimostrare che Saviano e la Murgia non fanno letteratura, Saviano per altro non fa mistero di sapere bene come il percorso da lui scelto sia un altro, tanto da scriverlo in uno dei suoi libri. Ci possono essere due risposte a questa domanda, la prima è che il mondo della nuova mitologia – il pop engagé – sembra ormai da qualche anno mangiarsi tutto in campo editoriale, stimolando perciò la necessità di una riflessione. L’industria ha sdoganato il midcult celebrando come grandi opere romanzi dagli stili semplici, dalle strutture basiche e con impianti moralmente lineari (i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e l’immancabile ricomposizione positiva finale), libri che raramente, per non dire mai, aprono a verità profonde e sconvenienti. Un’elevazione di grado di romanzi prima considerati dignitose opere di intrattenimento che ha rianimato il mercato dei libri “da premio”, allineando però sostanzialmente tutto verso il basso a discapito dei romanzi letterari che pure con qualche fatica anche in Italia continuano ad esistere.

Il fenomeno è storico e va di pari passo con la scomparsa della critica (oggi le recensioni le fanno soprattutto gli scrittori dicendosi a vicenda quanto sono bravi, altra cosa che non sfugge a Siti) e con la semplificazione obbligatoria in ogni comparto culturale, a partire dall’istruzione scolastica; una tendenza che risponde alle esigenze di una nuova fase della società: dalla società borghese dei giornali si è passati attraverso quella di massa (mediata dalla tv) e si è ormai stabilmente entrati in quella degli sciami digitali dove l’opinione si fa con telefoni e social network. I cittadini di quest’epoca sono produttori e consumatori di informazioni e coltivano l’illusione di muoversi indipendentemente, osservati però dalla giusta distanza mostrano i meccanismi omeostatici di un unico organismo vivente, un organismo perennemente ascoltato e organizzato dalle multinazionali del digitale. Uso metafore di carattere animale perché in un panorama di questo tipo è difficile continuare a mantenere l’aura di sacralità che l’uomo in quanto uomo ha avuto in altre epoche storiche, i concetti precedenti risultano qui operativamente superati, troppa è la misurabilità, eccessiva la predicibilità dei comportamenti. In un ecosistema di questo tipo, che premia l’identificazione, la tribalità, l’immediatezza, la rissa e il frammento, la letteratura ha poca cittadinanza.

La parte del saggio che viviseziona il pop editoriale italiano mi ha fatto però anche tornare in mente la scena di Troppi Paradisi in cui Siti confessa di non riuscire a sopportare quando Camilleri e Covatta vengono trattati come dei re al Maurizio Costanzo show. Forse sbaglio ma questa mi sembra la seconda motivazione, nascosta e più letteraria, di questa sezione di libro, la constatazione amara di una prospettiva di gloria che per il letterato appare ormai perduta. Ci sono stati tempi che ponevano sfide ben peggiori alla vita di uno scrittore, ad esempio si poteva rischiare di finire in carcere, tuttavia la prospettiva di una gloria transgenerazionale permaneva, oggi invece questa speranza appare declinante. I motivi mi sembrano almeno due: 1. Parafrasando Sciascia si possono scrivere libri per il futuro, ma bisogna vedere se il futuro avrà ancora dei lettori, in particolare se ne avrà di interessati ai libri oggetto di questa riflessione. C’è qualche ragione di dubitarne, ma staremo a vedere. 2. Siamo diventati materialisti e scientisti e della gloria da morti, la gloria cioè di cui non possiamo fare in alcun modo esperienza diretta, ci interessa poco. Ci troviamo, mi sembra, in un vicolo cieco da cui si può uscire solamente con un atto di fede nei confronti del valore della letteratura, considerandola cioè più forte, sul lungo periodo, dell’apparato ideologico-capitalistico che oggi si trova benissimo con il foraggiare il mercato di romanzi banali ma moralmente edificanti, anche se questo significa talvolta fare uso pornografico delle disgrazie altrui.

Ricordo ad esempio ancora con un certo imbarazzo uno spettacolo teatrale a cui assistetti un paio di anni fa assieme a tanti giovani progressisti e volenterosi in un bellissimo chiostro di una città d’arte del Sud: un attore milanese cinquantenne si produsse in un monologo in prima persona sulla storia di un bambino annegato al largo di Lampedusa. Durò un’ora, di cui una decina di minuti dedicati al momento in cui il bambino, perso nei marosi, smetteva infine di respirare. Il risultato fu grottesco, grottesco alla maniera della peggior pornografia (esiste anche una pornografia piuttosto gioiosa) perché con ogni evidenza non c’era quello che Nassim Taleb chiamerebbe skin in the game, la distanza era troppa e non necessariamente perché l’attore era un milanese cinquantenne (come vorrebbero i teorici del politicamente corretto nell’arte) ma perché lo stile scelto preferiva smaccatamente lo scandalismo all’empatia, la denuncia alla dimensione tragica della vicenda, indugiava nel lirismo e nel patetismo di maniera facendo di una persona un feticcio, spersonalizzava cioè un essere umano per consegnare alla platea una moneta da spendere al mercato della politica. Lo stile, come ricorda estesamente Siti, è sostanza, se si ha il tempo, la voglia e la competenza per prenderlo sul serio. Siti dedica a questa deriva pornografica-emotiva uno degli ultimi capitoli del libro, quello incentrato sull’icona pop Barbara D’Urso, una parte del libro dove si constata l’avvicinamento ormai evidente fra tv generalista e letteratura midcult.

Quello di cui Siti non parla è invece il meccanismo di istituzionalizzazione del dissenso, il fatto cioè che la sostanziale compattezza ideologica dell’industria editoriale e culturale non gli impedisca di rappresentarsi sempre come contro. Insomma la differenza la fanno gli insiemi: la tribù dei Perbene dentro la più grande tribù del Popolo Bieco e più o meno questo è quanto, un campionato a squadre chiuse, dove c’è l’Ordine da un lato e il Dissenso dall’altro e i confini del Dissenso sono perfino più rigidi di quelli dell’Ordine. Un assetto di questo genere è capace di riassorbire e marginalizzare ogni mancata ortodossia. È qui, credo, che incominciano un po’ a tremare i polsi e s’intuisce qualcosa di davvero sinistro: mentre un tempo l’artista – e lo scrittore non faceva eccezione – quando decideva di sfidare il corpo costituito della società lo faceva a suo rischio e pericolo, prefigurando talvolta con il suo lavoro l’avvento di una morale futura, oggi una determinata morale ribelle è data per costituita una volta per tutte e si è fatta industria, dunque regola, dunque sistema, e rappresenta un cammino sicuro. Lo svantaggio naturalmente è che di ribelle rimane giusto la parola.

Denunciare la discriminazione degli omosessuali negli anni sessanta aveva un costo pesantissimo sotto ogni punto di vista, oggi si paga ancora nelle periferie ma nel mondo della cultura è al contrario un buon viatico per premi e riconoscimenti. Più in generale l’impegno politico nelle forme previste è una condicio sine qua non per l’appartenenza alla buona società e gli incentivi sui grandi numeri contano, specie in un popolo abituato a fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri e pieno di artisti ribelli pronti a compiacersi del saluto dell’assessore alla cultura. Parliamo in fondo di un ambiente in cui da un anno tutti dicono, considerandola una cosa perfettamente normale, che il prossimo premio Strega andrà a una donna, non a questo o quel libro di una donna ma a una donna in quanto donna. Chissà, forse non andrà così, perché alla fine l’establishment letterario tende a sopravvalutare il proprio potere, non di meno è un dato inquietante. Ora, questo mi sembra un oggetto d’elezione per un possibile lavoro letterario, un settore della società, piccolo ma strategico, dove l’ideologismo ha raggiunto rapidamente vette impensabili soltanto dieci o cinque anni fa. Perché non indagare questo? Perché è scomodo e perché non è cosa da persone per bene. Al tempo stesso però mi sembra un oggetto esattamente letterario, così come sarà letterario tornare a occuparsi di minoranze quando l’ondata di destra che si profila all’orizzonte sommergerà il mondo del politicamente corretto. Il punto è che il lavoro letterario come lo descrive Siti, e su questo non posso che concordare, è necessariamente ingrato, il suo compito non è quello di costruire miti, stabilire regole di convivenza, far progredire l’uomo come collettività, quanto piuttosto permettergli di conoscersi nei suoi aspetti indicibili, nascosti, inaspettati, non necessariamente truci o malvagi, ma di certo avulsi alla logica del gruppo.

Forse diversamente da Siti credo che la letteratura di questo tipo sia sostanzialmente contro natura – coltivo un’idea scientista della natura che forse a lui non piacerebbe – perché le grandi narrazioni che dividono il mondo in buoni e cattivi sono scheletri evolutivi, mappe di significato inevitabili quanto la vista, la capacità di movimento e altri attributi fisici, e per questo motivo, per il loro innatismo cioè, vinceranno sempre. In un sistema che si efficentizza tecnologicamente vinceranno poi ancora di più. Tutti motivi per cui i tentativi di nuove genesi morali, che siano raffinatissime (Nietzsche) o a buon mercato (Murgia), sono con ogni probabilità destinate a fallire, mentre la mitologia non morirà mai, né morirà il tribalismo e tantomeno le storie o i romanzi di impianto lineare – dati per finiti mille volte ma tecnicamente immortali. La letteratura più profonda invece è sempre uno stato di eccezione, e, esattamente come la scienza ma in una direzione diversa, serve a superare per un breve illusorio momento il nostro mandato genetico pur partendo da esso (non disponiamo infatti di altre basi da cui muovere). Quando il movimento riesce si crea un qualcosa di sublime, trascendente e raro ma per definizione anche passeggero. Stupirsi un po’ che in un tempo storico come il nostro questa forma d’arte lenta, faticosa, esistenziale e preziosissima non domini le classifiche è il limite del libro di Siti, il suo pregio, invece, è chiedersi se in futuro un’attività con questi tratti continuerà a sopravvivere. La risposta non mi sembra scontata.

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L’omelia e il buon selvaggio http://www.danielerielli.it/lomelia-e-il-buon-selvaggio/ http://www.danielerielli.it/lomelia-e-il-buon-selvaggio/#comments Thu, 06 Sep 2018 11:00:38 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4153 Continua a leggere]]> Come sopravvivere alle infinite introduzioni dei festival culturali

(articolo apparso originariamente su Il Foglio del 26/08/2018)

 

L’estate non sarà più tempo di letture, se non delle chat su Whatsapp e delle didascalie alle foto autocelebrative su Facebook, ma rimane senz’altro tempo di festival, il rito transumante che compie il pachiderma dell’alfabetizzazione per andare a morire nel cimitero dell’evento. A chiunque capiti di prendervi parte, da invitato, da moderatore, da spettatore, da spillatore di birre, da vicino di casa insonne, non è permesso di sfuggire ad una cosa su tutte: l’introduzione infinita. In un mondo ideale del film che andiamo a vedere o del libro di cui sentiremmo dibattere ci basterebbe conoscere il titolo e, forse, ricevere qualche ridottissima informazione biografica sull’autore. Per il resto vorremmo fidarci a scatola chiusa del gusto del direttore artistico o della comune di cervelli che si è spremuta lungamente le meningi durante i mesi invernali per preparare il programma. Altrimenti, si suppone, non essendo noi degli imbecilli, non saremmo lì. Nell’FCI (Festival Culturale Italiano) è invece obbligatoria un’introduzione della durata minima di venti minuti, meglio se quaranta e con punte mitologiche, vagamente fantozziane, di un’ora abbondante. L’introduzione da festival ha una struttura fatta di caposaldi immutabili, primo fra tutti il saluto commosso e riconoscente alle autorità. S’inizia dal Comune –spesso microscopico ma i cui assessori non hanno comunque più quel grado di ingenuità che renderebbe il tutto un po’ meno stucchevole e più leggero – passando poi per la provincia fino alla regione. In genere questi ultimi sono quelli che mettono più soldi, quindi sono un po’ i padroni della baracca perché l’FCI per definizione non può produrre denaro, deve solo bruciarne, altrimenti rischia di perdere il valore culturale. Ho sentito con le mie orecchie in un recente FCI di medie dimensioni una giovane organizzatrice chiedere scusa alla platea subito dopo aver usato l’espressione “mercato del cinema”. Unica eccezione ai ringraziamenti per i contributi pubblici, un’esclusione peraltro significativa, si dà in presenza di fondi europei, un’eventualità in cui Bruxelles non si nomina mai, pare infatti che l’oscura funzionaria polacca che appone le ceralacche sulle vittorie dei bandi non venga mai alle cene dopo le proiezioni e i dibattiti. Esauriti i saluti alle autorità, ai vips in sala e conclusi anche i ringraziamenti incrociati – con applausi doverosi – fra organizzatori, si giunge al nucleo senziente dell’introduzione: il discorso sulla necessità & sui fini. Il sottointeso qui è che raccontare una storia sugli esseri umani e i loro strani comportamenti sia da sola una motivazione un po’ troppo triviale per un’opera che aspiri a trovare posto all’interno di un FCI, e, diciamocelo, sarebbe anche un po’ poco per noi che siamo qui, visto che il PCI (pubblico culturale italiano) cerca sì intrattenimento ma con i punti di rilevanza sociale ben sottolineati e numerati come negli specchietti sinottici a fine capitolo nei sussidiari. Si passa quindi a illustrare come l’opera che seguirà sia di assoluta necessità, una sorta di farmaco sperimentale e prezioso per curare un determinato male del corpo sociale. Fra le patologie più gettonate: disumanità, indifferenza, ignoranza, dominio del neoliberismo. Talvolta si fa più genericamente appello ad intere categorie, quindi giovani disoccupati, esclusi dalla società, afflitti da solitudine, anziani che non hanno diritto allo sconto sui trasporti pubblici. Anche volendo per un momento prendere per buono il dogma dell’artista ingegnere e meccanico sociale la cui opera abbia un solo livello di lettura – quello a favore del miglioramento del welfare – il problema è che la complessità e gli aspetti peculiari della società contemporanea potranno talvolta entrare nelle opere (soprattutto in quelle straniere) ma mai e sotto nessuna circostanza nell’introduzione. Il suo cuore pulsante, l’epicentro retorico, è tarato infatti su di un’immagine della società italiana che viene presa di peso dagli anni sessanta, per cui, ad esempio, se siamo in provincia i giovani “non hanno occasione di vedere cose diverse da quelle che vanno in televisione”, il tutto detto mentre in platea un sedicenne annoiato segue in diretta su YouTube lo stretching di Cristiano Ronaldo in un resort della Grecia occidentale. E tuttavia questo sfasamento cronologico con la realtà fornisce un indizio prezioso all’osservatore laico che s’interroghi, durante la lunga ed estenuante attesa, sulla natura dello spettacolo a cui sta assistendo. Se negli elementi fra di loro apparentemente in contrasto come i propositi rivoluzionari e le pubbliche riverenze alle autorità si ritrovano i tratti tipici e pressoché eterni della borghesia italiana, mano a mano che il discorso procede senza avvicinarsi mai, novello Achille di Zenone, alla fine, un’illuminazione coglie prima o poi il paziente spettatore: sta assistendo ad un’omelia. Tutti quegli anni a denunciare le malefatte della chiesa santa cattolica e apostolica salvo poi tradire, attraverso un’imitazione delle forme, un istinto naturale, quasi biologico, al ritorno ai riti di un’infanzia per bene. E così l’intellettuale da FCI quando si produce nella sua inesauribile omelia introduttiva ritorna inconsciamente alle origini tanto criticate –la messa della domenica a cui lo portavano i genitori –, forme ancora vive della sua socialità perché mai abiurate davvero, essendo l’illuminismo dalle nostre parti roba appunto da schema sinottico che si manda a memoria per non capirlo. L’omelia dell’FCI pare quindi mandare – attraverso la struttura, i gesti e la trascendenza immutabile del rito – il più alberto sordesco dei messaggi: gli italiani so’ tutti uguali. Conclusione un po’ troppo severa nei confronti del Paese, che forse – si sottolinea però l’avverbio – non la merita. L’osservatore ormai sull’orlo del coma indotto dal potente anestetico vocale propone quindi una seconda direzione d’indagine, una domanda utile ad individuare almeno una differenza. Perché tutto questo indulgere, nelle omelie degli FCI, sui popoli lontani, quando nella platea ci sarà pure abbondanza di lini svolazzanti e di colori etnici ma le pelli sono bianche quanto quelle di una riunione del Ku Klux Clan? Ed ecco che emerge il problema più recente di questo sottogenere oratorio: il pubblico di riferimento. Perché vanno bene tutte le categorie di cui sopra ma serve anche una massa a cui rivolgersi, un branco compatto e indistinto di diseredati di buoni sentimenti a cui additare tutti quei mali più specifici e di nicchia. Serve insomma un popolo da dirigere. Il problema è che se parliamo di platee, al di fuori dell’FCI – che per definizione è quasi un guardarsi negli occhi fra addetti ai lavori, un predicare ai convertiti –per questo genere di omelia ormai c’è quasi il deserto. Il vecchio proletariato ha alzato la testa se non socialmente quanto meno nella percezione – fondata o meno non è questo il punto – di sé. Forse deve badare al lavoro, alla famiglia, o ha la timeline Instagram delle colleghe da scrollare e le vacanze a Gallipoli da pianificare per portare a casa un po’ di selfie di qualità su cui campare non dico tutto l’inverno ma almeno fino a Natale. Chissà. Cos’abbia di meglio da fare rimane in fondo un mistero ma appare evidente come non abbia più né voglia né tempo di ascoltare pazientemente i sermoni di chi tratteggia un sole dell’avvenire che non arriva mai se non per chi lo dipinge. Rimangono al novello parroco del progresso le bolle dei lavoratori dei media o di quella che un tempo si sarebbe chiamata l’industria culturale, assieme a dei giornali sempre meno letti. Ma anche qui si rischia di non provare quel tipo di sensazione oceanica che solo la propria voce che crepita da degli altoparlanti su una piazza colma di gente dove le bandiere garriscono in un silenzio assorto, rapito, può garantire. Certo per raggiungere le masse made in Italy ci sarebbero anche i frequentatissimi social network ma lì la battaglia fra messaggi tagliati con l’accetta la vincono inevitabilmente gli altri. Fra ruspe e magliette rosse vincono sempre le ruspe, la piattaforma tecnologia è pensata così, per massimizzare il rogo dei capri espiatori. Ecco quindi un problema di difficile soluzione, pensa il paziente spettatore che nell’attesa della proiezione ormai lambisce i sempre più attraenti confini del sonno REM: dove trovare un popolo da difendere e dirigere con mano gentile ma ferma e che sia al tempo stesso sufficientemente educato da non morderla, quella mano? Un indizio su dove sia diretta la ricerca ce lo dà, fra gli altri, il magistrale articolo su Repubblica (genere contiguo e simbiotico all’omelia da FCI) di Tonia Mastrobuoni a proposito della polemica sul calciatore di origine turca özil che ha chiamato Erdogan “il mio presidente” e in seguito alle proteste ha abbandonato la nazionale tedesca. Commentando il fatto che i turchi tedeschi hanno votato in massa per Erdogan la giornalista scrive: “Non è una schizofrenia di chi gode quotidianamente delle libertà di una democrazia parlamentare funzionante e sceglie nel segreto dell’urna un autocrate liberticida e – in questo caso, davvero – parafascista. E’ (sic) il grido di protesta di una minoranza importante che continua a sentirsi minoranza reietta e riscopre con Erdogan un presunto orgoglio nazionale andato perduto.” .

Così, molto semplicemente e molto univocamente. Tedeschi democratici ma cattivoni, turchi filo fascisti certo, ma per dispetto. Il retore da FCI non conoscerà più con l’esattezza millimetrica di un tempo il volere delle masse autoctone ma con lo stesso grado di unilateralità e di sicumera ora sente di conoscere quello delle masse straniere, che dal canto loro sono sufficientemente lontane dal non sentire il bisogno di rispondere a questa privazione di soggettività con una pernacchia. In discorsi di questo tipo si ritrova tutta la forza spersonalizzante del mito del buon selvaggio, vero e proprio sostituto contemporaneo del proletario portatore di ogni virtù e di nessuna macchia, quindi inumano. Per altro è la perfetta antitesi del cattivo selvaggio, anch’esso altrettanto inautentico, un rovesciamento uguale e contrario della retorica dello straniero inevitabilmente barbaro e stupratore, con l’aggravante che si tratta del fallimento di un’alternativa proprio là dove non si fa altro che parlare di diversità. Le cose naturalmente sono molto più complesse e fortunatamente nessun popolo – tantomeno quello turco – si fa comprimere dentro analisi così sommarie e ideologiche. C’è chi avrà votato Erdogan per questo motivo e chi per tutt’altro, ovviamente, e se proprio esistesse qualcuno in grado di conoscere così nel dettaglio le motivazioni dei voti alle elezioni si tratterebbe probabilmente di Google e degli altri signori dei big data, ma questo, decisamente, non è materiale da FCI. Quello che conta, l’aspetto più prezioso, è che però nessuno si prenderà la briga di rispondere ad affermazioni del genere perché tutto sommato i turchi tedeschi hanno altri problemi, altri interessi, altri dibattiti da seguire. Il che li rende dei buoni selvaggi ideali, perfetti come altri popoli lontani anche per l’inserimento nell’omelia da FCI. A questo punto lo spettatore ormai ronfante è visitato in sogno da un’ulteriore problema, questa volta in prospettiva: il genere retorico dell’omelia si avvantaggia di grandi opposizioni, di confini netti e di orizzonti da tracciare, necessita soprattutto del silenzio raccolto e ossequioso della platea. Si potrebbero quindi presentare delle complicazioni quando in futuro si realizzerà anche in Italia l’integrazione che tutti giustamente auspichiamo e il selvaggio, da idealtipico elemento muto del paesaggio, diventerà un cittadino con diritto di parola e sarà impossibile per l’oratore decidere cosa pensa, lui e i milioni che si suppongono uguali a lui come dei replicanti, sulla base di una rapida annusata dell’aria fuori dalla finestra. “Sento odore di dispetto, in milioni!” non funzionerà granché, allora. Ma stiamo parlando di un tempo molto lontano, diciamo almeno 2-3000 omelie introduttive di distanza (OID). Ora però un po’ di silenzio, il film sta già per iniziare.

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La tribù online http://www.danielerielli.it/la-tribu-online/ http://www.danielerielli.it/la-tribu-online/#comments Fri, 21 Aug 2020 08:22:44 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4578 Continua a leggere]]> Questo articolo è apparso su Il Foglio il 15.08.2020

“Il Ramo d’oro” di James Frazer contiene, fra le tante, anche le vicende di un’antica tribù africana presso la quale, nel momento stesso in cui veniva nominato, il re fuggiva dal villaggio e doveva venire ricatturato da un gruppo di guerrieri e messo a forza sul trono. La scena ha un che di comico se si considera quanti sforzi sono stati fatti in ogni tempo dagli uomini proprio per salire sui troni, eppure quella fuga dal potere – che Frazer svela poi avere motivazioni piuttosto solide – ha nonostante tutto un che di credibile, di sinistramente sensato: cela l’intuizione di una verità nascosta, come spesso accade con le cose capaci di farci ridere.

Il periodo in cui ho letto per la prima volta questa piccola storia era lo stesso in cui Matteo Renzi aveva da poco perso quel referendum costituzionale che inizialmente doveva essergli era sembrato un goal a porta vuota (proporre agli italiani un taglio del numero dei parlamentari? Quale esito più scontato?) salvo poi diventare un incubo nel momento in cui lui stesso lo aveva trasformato in un test sulla sua persona. Un errore diventato il primo atto di quell’arco declinante che ha mutato il suo personaggio pubblico da uomo della provvidenza a una sorta di villain per antonomasia, quasi compiaciuto del nuovo ruolo marginale e risentito.

Eppure le colpe potrebbero – pensavo – non essere tutte di Renzi. Soprattutto, avendo scritto di lui mi era capitato di osservarlo da distanza ravvicinata e lo avevo visto letteralmente braccato dai suoi sostenitori. Un entusiasmo che sembrava a quel punto il perfetto contraltare dell’odio che era in grado di attirare nella nuova fase crepuscolare della sua carriera. Certo di uomini che promettono molto e finiscono poi schiacciati dal peso delle aspettative disattese è piena la storia della politica – non solo recente – ma mi rimaneva l’impressione che nei cicli sempre più brevi che portano i politici dai vertici all’ ignominia e all’irrilevanza, ci fosse una componente eterna – antica, primordiale – e una che invece era diretta espressione della tecnologia digitale contemporanea.

In poche parole Internet, e in particolare i social network, pur espressione della società della scienza, sono anche degli straordinari amplificatori tribali, ci riportano cioè alle origini della civiltà umana, quando per fondare le nostre comunità sacrificavamo capri espiatori, come ha sostenuto nel suo lavoro l’antropologo francese René Girard. È da questo nucleo di riflessioni che è nato Odio, da questo e dall’aver scoperto che uno dei primi finanziatori privati in Facebook è stato Peter Thiel, allievo proprio di Girard a Stanford e suo seguace convinto, tanto da aver finanziato Imitatio, una fondazione di studi a lui dedicata.

In molte interviste Thiel ha ribadito l’importanza di Girard nella sua formazione e nel libro “Zero to one” ha declinato in chiave aziendalista molte idee del suo maestro. Facebook è un’incarnazione digitale sorprendentemente precisa dei due principi cardine del pensiero di Girard: l’imitazione mimetica e il sacrificio del capro espiatorio. Imitazione mimetica significa – in soldoni – che finiamo sempre per desiderare quello che vogliono le persone che ci circondano, in particolar modo il gruppo dei nostri pari. Come ricostruisce perfettamente Luca Ricolfi ne “La società signorile di massa”, l’élite urbana sogna ad esempio un tipo di lusso studiatamente informale e attento a una costruttissima autenticità – ricerca cioè l’esperienza – la periferia è invece ancora attratta dal possesso materiale e da una ricchezza sfiorata soltanto occasionalmente.

Il punto qui comunque è che non si desidera mai nel vuoto, ma sempre all’interno del proprio contesto sociale, e, soprattutto, che visto che le risorse sono per definizione finite e distribuite in maniera diseguale questo concentrarsi dei desideri sugli stessi obbiettivi genera sempre un certo grado di tensione, di risentimento, di invidia. Nella società primordiale questo tipo di reciprocità negativa sfocia in una sorta di guerra di tutti contro tutti, un piano orizzontale risolto dal sacrificio di un capro espiatorio che pagando per i peccati di tutti permette la pacificazione della società e l’avvento di una gerarchia stabilizzante.

L’attuale ecosistema informativo digitale è orizzontale per definizione dato che tutti, ma proprio tutti, abbiamo in tasca uno smartphone connesso a internet e ricorda molto da vicino proprio lo stato di reciprocità negativa. Al di fuori della rete – nel mondo fisico – permane però intatto l’ordine dettato dalla gerarchia piramidale dall’economia reale. I due piani – quello dell’informazione e quello dell’economia – confliggono perciò in questa sorta di asimmetria fondamentale creando precisamente quella tensione pre-temporalesca che percepiamo ogni giorno, la sensazione cioè che nonostante la società sia ancora in grado di assolvere con una certa efficienza ai suoi compiti fondamentali, una deflagrazione animata da ragioni che appaiono tanto oscure quanto inesorabili ci sembri sempre più imminente.

Cliccare sull’app di Facebook sul mio telefono assomiglia ogni giorno di più all’aprire il portellone di un forno a legna avviato a pieno regime, con la differenza che mentre l’ardere dei tronchi è in grado di generare geometrie imprevedibili, eleganti, ipnotiche, l’odio tribale che brucia su Facebook è quanto di più scontato e meccanico si possa immaginare. Quand’è stata l’ultima volta che avete letto una femminista attaccare l’atteggiamento nei confronti delle donne non del fantomatico maschio bianco occidentale paternalista ma di un estremista islamico? Esatto, mai. Quante volte avete sentito un leghista lamentarsi della minaccia alla sovranità italiana rappresentata non dagli immigrati africani ma del governo cinese? Realisticamente la risposta anche in questo caso è zero. A ognuno secondo la sua bolla, ossessioni, omissioni e contraddizioni incluse, anche se talvolta verrebbe da dire soprattutto omissioni e contraddizioni perché è proprio quando si decide di chiudere gli occhi di fronte a un segnale incoerente che più di tutto si certifica la propria appartenenza al gruppo.

Personalmente abito – abbastanza involontariamente visto che raramente faccio richieste di amicizia, mi limito a rispondere a quelle che ricevo – una bolla digitale composta in larga parte da 30-40enni che fanno, o tentano di fare, professioni creative. Principalmente giornalisti, scrittori, ma non solo. Di questi, una minoranza appare effettivamente sovra-educata mentre la maggioranza sembra in possesso giusto di quella manciata di nozioni che vengono ritenute sufficienti a sentirsi intellettualmente superiori nei confronti del resto della popolazione. Complice anche la transizione dell’industria culturale all’era digitale, la stragrande maggioranza della mia bolla rilascia informazioni che la fanno pensare trasversalmente sottoccupata, il più delle volte malpagata, mediamente rancorosa.

In genere appartiene per meriti famigliari alla piccola-media borghesia e affianca a salari incerti rendite sufficienti giusto a una vita di mero galleggiamento, un’esistenza che con l’avanzare dell’età appare sempre meno adatta; vede insomma davanti a sé lo spettro del declassamento sociale ma l’idea di cambiare settore occupazionale non la sfiora neppure perché il posizionamento di immagine gli appare incommensurabilmente più prezioso di quello economico. Tanto è malleabile dal punto di vista salariale tanto è intransigente dal punto di vista ideologico: è largamente ossessionata dalla correttezza politica, monolitica sui più classici assiomi antirazzisti (ogni forma di regolamentazione dell’immigrazione è, per definizione, xenofobia), si schiera sempre e comunque dalla parte delle minoranze. Nulla nella mia bolla sembra capace di rilassare i nervi scossi quanto un post adirato contro Salvini e, ultimamente, la Meloni.

Il meccanismo è talmente automatico che si potrebbe usare uno di quei generatori automatici di titoli che proprio la mia bolla dedica a nemici storici come il giornale Libero. Intendiamoci, so bene quanto può essere rilassante questo genere di sfogo perché vi ho ceduto spesso a mia volta, è, per l’appunto, parte del fascino del capro espiatorio: esternalizzare il male che abbiamo dentro verso qualcuno che potrebbe aver fatto qualcosa per meritarselo almeno un po’. Crepe nella mia personale bolla digitale sono rappresentate da amici d’infanzia e adolescenza, ex compagni di scuola o di basket, parenti, tifosi della curva dell’hockey club Bolzano che mi seguono per via di un documentario che ho girato sulla squadra. Qui la percentuale di gente che se non lavora non mangia sale in maniera significativa e in questo segmento vanno molto più forte gli immigrati visti come problema, le teorie del complotto sul 5g e i cuccioli di tutte le razze animali addomesticate. Più di ogni altra cosa però si assiste alla pubblicazione di scampoli di vita privata, di momenti familiari, di gite e di ferie. Nessuno qui credo abbia mai sentito parlare di Calenda.

L’ossessione di ribattere a ogni affermazione di un leader politico rimane comunque molto più forte nella parte sinistra della bolla, che, per inciso, sembra contenere parecchie persone passano tutta la vita a combattere guerre online. Le possibilità che un giorno, per uno strano allineamento dei pianeti, qualcuno nell’area sinistra della mia bolla trovi non del tutto deprecabile una singola affermazione della Meloni appare anche in questo caso uguale a zero, il che statisticamente è significativo della scarsa onestà intellettuale impiegata nel giudizio perché un paio di volte al giorno anche un orologio rotto segna l’ora giusta. Non ho dubbi che lo stesso valga in altre bolle a me precluse per un’affermazione qualsiasi della Boldrini.

Quello che sto dicendo è che sui social il dialogo è un’illusione, quello che facciamo è: 1. Segnalare le cose bellissime che riempiono la nostra vita (imitazione mimetica) 2. Prendercela con qualcuno a partito preso per sentirci meglio (sacrificio del capro espiatorio). E lo facciamo a partito preso anche quando nel merito potremmo avere dalla nostra qualche ragione, non è questo però che ci muove: quello che ci mette in azione in questo tipo di piattaforma digitale è ribadire l’appartenenza alla nostra tribù, quella dell’Italia che si sente migliore oppure quella dell’Italia che si sente dimenticata. Il meccanismo è tribale, il dibattito non esiste, è una messa in scena.

L’aspetto grottesco delle echo-chamber politiche è esattamente questo: milioni di persone si affannano a esprimere i loro pareri politici ma non fanno altro che farsi la conta dei like a vicenda mentre predicano ai convertiti. Al di fuori di chi è già d’accordo non c’è infatti nessuno ad ascoltare. Una parte del Paese pensa che l’altra viva in una specie di medioevo e l’altra pensa che la prima abbia perso del tutto il contatto con la realtà e sia intossicata dall’ideologia. Le due parti non si parlano, si disprezzano. Ognuna delle due parti deve sfogare su qualche capro espiatorio la tensione che si genera all’interno di quelle camere stagne dove nessuna voce suona bene quanto la propria.

Non vorrei dare però l’impressione di ritenere che le piattaforme abbiano generato in noi qualcosa che prima non c’era: non è così. La tribalità è sempre esistita, ed è sempre stata una forza fondamentale. Forse il motivo per cui parlo in maniera smaliziata della mia bolla è proprio perché mi ci trovo dentro in larga parte involontariamente, sarebbe per me molto più difficile farlo se mi ci riconoscessi in maniera totale e identitaria, sarebbe come l’acqua per il pesce nella nota storiella di Foster Wallace.

Quello però che i social stanno facendo è prendere una delle caratteristiche dell’essere umano e farne l’unico metro – assoluto – dell’esistenza. Attraverso la continua ottimizzazione degli algoritmi hanno creato un ambiente volto a farci spendere più tempo possibile online, in modo che possa venire somministrata la maggior quantità possibile di pubblicità. L’analisi dei dati ha dimostrato nel tempo che il modo migliore di riuscirci era riportarci, per quanto solo virtualmente, al nostro stato pre-civile. In sostanza, l’Occidente si sta imbarbarendo e polarizzando all’interno di camere di autoreferenzialità dove il logos lascia spazio alla tribalizzazione perché in Silicon Valley possano continuare a fatturare.

È questo l’odio che dagli schermi tracima nelle nostre vite in quantità che sembravamo aver dimenticato, un fenomeno molto più ampio e radicale di questo o quel presunto hate speech, è l’aria che ci circonda, è lo spirito del nostro tempo: lo spirito antico della tribù.

 

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Questo pezzo è stato pubblicato nella newsletter di Domani il 18/2/2020 // (illustrazione di Dario Campana)

Qual è lo stato della libertà d’espressione in occidente? Diciamo che potrebbe stare meglio. Bari Weiss si è appena dimessa dal New York Times, era stata una dei pochissimi giornalisti di testate liberal a seguire i fatti dell’università di Evergreen, quando Bret Weinstein, un biologo evoluzionista con una lunghissima storia di militanza anti razzista, sostenitore di Bernie Sanders e di Occupy Wall Street e nessun legame con Harvey Weinstein, il produttore cinematografico, fu costretto da alcuni studenti ad abbandonare il college per aver espresso un’opinione.

Che opinione?

Un parere contrario al rovesciamento del Day of Absence da giorno in cui gli studenti e i dipendenti delle minoranze non si presentavano in facoltà per sottolineare la loro importanza a giorno in cui i bianchi venivano ufficialmente invitati dalle istituzioni accademiche a non a recarsi al lavoro o a lezione.

In quell’occasione, Weinstein – che per inciso è una mente brillantissima, consiglio il suo podcast The Black Horse  e in particolare l’ultima puntata dove ospita sette intellettuali afroamericani – scrisse le seguenti parole:

“C’è una grossa differenza tra un gruppo o una coalizione che decide di assentarsi volontariamente da uno spazio condiviso per sottolineare il suo ruolo vitale e normalmente ignorato… e un gruppo che incoraggia un altro gruppo ad andarsene. La prima è una potente chiamata alla coscienza, il che, ovviamente, colpisce la logica dell’oppressione. La seconda è una dimostrazione di forza e un atto di oppressione in sé e per sé.”

In seguito a questo messaggio pienamente nell’alveo del dibattito intellettuale, politico e civile tipico di una democrazia, il professore progressista fu accusato di essere un sostenitore della supremazia bianca, fu inseguito da studenti armati di mazze e gli fu impedito di tenere le sue lezioni nel campus; dovette tenerle in un parco.

Questi fatti incresciosi rimasero per lungo tempo avvolti nel silenzio assoluto dei media perché questo tipo di razzismo non rientrava nella narrativa: gli illiberali in quel momento erano soltanto Donald Trump e i suoi sostenitori non potevano essere anche degli studenti di sinistra della middle class determinati a mettere a tacere un loro professore progressista. Una cosa, per qualche strano motivo, sembrava escludere l’altra.

In questo clima Bari Weiss fu appunto fra i pochissimi giornalisti a dare notizia di questo episodio e ora si dimette dal New York Times, il bastione del giornalismo occidentale sempre più in affanno nel mantenere una linea di area, sì, ma anche attento ai fatti più che alle ideologie.

Nella sua lettera di dimissioni, da leggere con attenzione, la Weiss denuncia il clima di oscurantismo ideologico e di maccartismo che si respira in redazione e parla del ruolo di Twitter nel decidere gli editoriali e la linea politica del giornale. Ne esce il quadro di un’istituzione sotto il perpetuo ricatto dei social network. Data la rilevanza a livello globale della testata questo è un problema per tutti, non solo per gli americani.

Il peso dello spaventapasseri

Il meccanismo è semplice: qualsiasi opinione si discosti anche in minima parte dall’ortodossia dei militanti social viene tacciato in maniera automatica e ossessiva di essere sessista, razzista, patriarcale o collaboratrice di fatto di Trump o (da noi) di Salvini, specialmente se rappresenta una modo meno talebano di essere di sinistra, giacché il nemico per eccellenza della sinistra estrema più che la destra è da sempre la sinistra moderata.

Non sono ammesse discussioni di sorta perché il grande treno progressista della storia sarebbe in viaggio e discuterne sarebbe sempre e comunque un atto reazionario in sé.

Tecnicamente questo si chiama straw man argument, l’argomento dello spaventapasseri: si mette in bocca all’avversario cose che non ha detto e se ne stravolge così totalmente il pensiero, dopo di che si attacca lo spaventapasseri, non più la persona, né la sua idea. L’interlocutore rimane così inevitabilmente schiacciato sotto il peso dello spaventapasseri.

Eccezionale veicolo di conformismo intellettuale lo straw man argument funziona perfettamente nell’ambiente dei social network perché riporta ogni gradazione intermedia e ogni distinguo interno a un discorso verso un estremo già conosciuto e commerciabile, riducendo così interi ragionamenti a quella che i pubblicitari chiamerebbero keyword, e, quel che è peggio, una keyword mistificatrice. La persona a questo punto può anche sgolarsi, ma nessuno la ascolta più, è stata cancellata.

Questo modo di rifiutare il dibattito, distorcendolo, ricorda a un lettore italiano la parte peggiore degli anni Settanta, con i deliri sulle responsabilità oggettive denunciati al tempo da Leonardo Sciascia.

In realtà democrazia, progresso ed equità non potranno mai esistere senza un dibattito pubblico in salute, aperto, libero e questo significa accettare anche opinioni che si discostino dall’ortodossia militante. Soprattutto quelle che si discostano, verrebbe da dire data la scarsissima tolleranza all’altro di queste ultime.

 

Dissenti? Ti cancello dalla società

Spesso la cancellazione prende anche forme più radicali e prevede la perdita del lavoro, la rimozione delle proprie opere dalle piattaforme, l’ostracismo sociale. Per anni Bret Weinstein è stato etichettato online come un estremista di destra e c’è voluta la nascita e l’espansione dei podcast del cosiddetto intellectual dark web perché il biologo bullizzato dagli studenti potesse ricordare che la sua biografia e il suo pensiero dicevano tutt’altro.

Weinstein è una delle tante vittime innocenti di questa nuova versione digitale della caccia alle streghe. Che nel mezzo ci siano andate anche diversi autentici colpevoli, come l’altro Weinstein (Harvey), non giustifica per un momento il trattamento che queste persone hanno ricevuto e continuano a ricevere.

Anche scrivere un articolo come questo oggi porta con sé un certo grado di rischio, il rischio di essere per l’appunto fatti oggetto di uno straw man argument e venire così classificati nel tritacarne dei social come reazionari, con tutte le conseguenze che questo comporta. Per quanto chi scrive soffra sempre un po’ un certo tipo di retorica, denunciare l’assurdità di un clima del genere, rifiutare il ricatto, opporsi alla riduzione di ogni cosa a due polarità, entrambe sbagliate, va davvero assumendo le sembianze di un dovere civile.

La cancel culture più che un movimento progressista è la notte in cui tutte le vacche sono nere e ogni pensiero non allineato, per quanto di poco, è un pensiero estremo e inaccettabile. Una radice dell’attuale contrasto fra città e periferia, fra élite e popolo, fra media ed elettorato sta anche nel rifiuto che le seconde polarità di questi dualismi fanno di quello che ritengono uno stato di polizia del linguaggio che ha da tempo superato i confini dell’auspicabile e del civile per raggiungere i livelli dell’arbitrario.

Al tempo stesso ergersi a sacerdoti di questa nuova ideologia può essere anche in Italia una via semplice e sicura per coprire dei comportamenti quanto meno dubbi, lo dimostra ad esempio l’inchiesta di Tip sull’avvocato-attivista Cathy La Torre. Un pezzo che genera però nel lettore un’ulteriore domanda: quanto ci avrebbe messo un articolo di questo tenore ad essere tacciato di sessismo se l’autore invece che Selvaggia Lucarelli fosse stato un uomo? Il problema è anche questo, affinché si possano denunciare degli autentici casi di sessismo è necessario che non ogni cosa sia automaticamente sessista.

Cosa c’entrava ad esempio il sessismo con le foto del ministro Lucia Azzolina su un sito che pubblica da sempre foto di uomini politici in costume da bagno come Dagospia? Nulla. Sarebbe il caso semmai di discutere dell’opportunità unisex di un simile genere di giornalismo.

Salvare il progressismo dai suoi distruttori digitali

La prima vittima della situazione è quindi l’autentico progressismo liberale che non può esistere senza un’analisi profonda, precisa e dettagliata della realtà, senza un meccanismo di attribuzione delle responsabilità, di riconoscimento dei meriti e, soprattutto, senza un libero scambio di idee che metta continuamente alla prova i nostri concetti di verità, di bene, di giusto.

Se siamo arrivati fino a qui, allo stato attuale della civilizzazione emancipandoci dalla nostra arcaica natura tribale è anche perché abbiamo perseguito questa idea plurale di verità, permettendo occasionalmente l’errore e agevolando, molto più spesso, la creazione di novità positive, in grado di migliorare concretamente la nostra vita, di alleggerirci cioè il fardello dell’esistenza.

Il massimalismo digitale è l’esatto contrario dell’argomentare tipico del logos occidentale e riporta in vita, seppur in forma virtuale, il tribalismo delle nostre origini. Si tratta di un meccanismo perverso che finisce inevitabilmente per avvitarsi su sé stesso alla ricerca dell’estrema purezza, ma la gara a chi è più puro finisce sempre molto male ed è un vortice pericolosamente simile a quello dei totalitarismi, perché chi non è d’accordo non è più “una persona con un’altra idea” ma un incivile, o talvolta persino “un inumano” ( è, cioè, La bestia).

Il meccanismo infatti è capace di distorcere sentimenti morali preziosissimi, come il desiderio di equità, l’antirazzismo, il senso di giustizia, rovesciandoli nel loro contrario proprio mentre non fa altro che ripeterne i nomi, ormai svuotati di senso. Il delitto quindi è doppio perché approfitta della buona fede e dei sentimenti migliori degli esseri umani.

Purtroppo per molte persone tutto questo non rappresenta un problema finché non arriva il giorno in cui assaggiano sulla propria pelle cosa significhi essere oggetto di processi sommari e ideologici e si rendono conto che in un ambiente del genere è diventato impossibile protestare la propria innocenza.

A quel punto però è in genere troppo tardi.

Un altro meccanismo ricorrente della cancel culture è il ricorso costante agli argomenti ad hominem, non rispondere cioè mai alle argomentazioni ma fare cherry picking dalle biografie degli avversari – o storpiarle del tutto –  e tentare di silenziare così la loro voce attraverso la ricerca di un rifiuto a priori da parte del pubblico al quale si richiede l’ennesima prova di appartenenza.

La Silicon Valley e la democrazia liberale

All’interno del meccanismo tritura-realtà dei social network è centrale soprattutto l’esigenza di continuare a ribadire a chi si appartiene, che sia essa la schiera dei sovranisti o quella dell’Italia progressista: più che un’analisi della realtà ai social serve sempre un capro espiatorio da sacrificare seduta stante.

Le piattaforme digitali hanno perciò responsabilità gigantesche nella crisi di senso che affligge l’occidente, sono le loro architetture ad averci reso così dipendenti dalla ricompensa neurologica che riceviamo ogni volta che ci posizioniamo in maniera univoca all’interno di una fazione e non cerchiamo invece una mediazione che consideri anche un certo grado di empatia verso i nostri simili.

Il problema però è enorme: una società incapace di affrontare i suoi problemi per il semplice fatto di essere troppo impegnata nei suoi conflitti tribali per occuparsi del merito delle questioni, non ha futuro perché non può reggere la complessità dei problemi che l’attendono.

Bisogna perciò ripartire dai fatti e sostenere che la cancel culture non esista è prima di qualsiasi altra cosa un’affermazione oggettivamente falsa, perché non sostenuta dai fatti.

Viviamo un periodo storico il cui il rapporto molto “disinvolto” – per usare un eufemismo – dei populismi con i fatti richiede al giornalismo e alla politica un’ancora maggiore serietà che passa anche dalla capacità di mostrare che i propri valori sono realmente universali, non solo a parole.

La cancel culture è la migliore amica dei Trump e dei Salvini perché con i suoi eccessi persecutori impedisce il crearsi di un’alternativa inclusiva, plurale e basata su una libertà di espressione affiancata da un vincolo di realtà.

Per questo se sia la scienza che il giornalismo – due discipline così diverse, eppure entrambe necessarie al nostro modo di vivere plurale e tollerante – vogliono tenere fede alla loro natura e al loro scopo non possono ignorare proprio una cosa: i fatti.

Per quanto odio tribale questo possa generare su Twitter.

 

 

 

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Non censuriamo la battaglia. http://www.danielerielli.it/non-censuriamo-la-battaglia/ http://www.danielerielli.it/non-censuriamo-la-battaglia/#comments Mon, 19 Oct 2020 16:41:58 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4662 Continua a leggere]]> Pubblicato su Domani il 19.10.20.

DELLA BATTAGLIA

Nel numero in costante aumento di modi di dire che alcuni vorrebbero bandire per sempre, uno colpisce in maniera particolare. Si tratta dell’espressione – principalmente giornalistica, ma talvolta usata nel linguaggio comune – secondo la quale una persona muore “in seguito a una battaglia” o “dopo aver perso una battaglia” contro una malattia.

Questo ennesimo tentativo di polizia del linguaggio è più importante di altri per almeno due motivi. Il primo è che riguarda chi ha sofferto fino a perdere la vita, lasciandosi il più delle volte alle spalle persone addolorate e decise a difendere la memoria del defunto, perciò il solo discuterne richiede rispetto, una certa dose di cautela e di empatia; il secondo è che il fatto stesso che esista una discussione del genere è emblematico di un cambio netto nelle idee oggi più diffuse attorno alla condizione umana.

COLPEVOLIZZAZIONE

Secondo i suoi detrattori un’espressione come “perdere la battaglia con una malattia” sarebbe offensiva perché andrebbe a infierire sulla vittima, colpevolizzandola. S’insinuerebbe insomma l’idea che nel momento in cui si perde una battaglia questo accada inevitabilmente perché non ci si è impegnati abbastanza. Una convinzione del genere implica a sua volta l’idea che l’uomo abbia la possibilità di controllare ogni aspetto della sua esistenza, oltretutto per un periodo indeterminato – potenzialmente infinito – di tempo e che superare ogni problema sia in ultima analisi sempre una questione di volontà di potenza. Una posizione tanto assurda da risultare per l’appunto estremamente significativa e meritevole di una riflessione.

In un certo senso è come se anni di telefilm di scarsa fattura che ripetevano “Sii te stesso e potrai fare qualsiasi cosa” e di pubblicità ispirazionali (dal Just do it della Nike in giù) si fossero fusi con le tante altre nervature ugualmente irrealistiche dello Zeitgeist per trasformarsi gradualmente in un substrato condiviso patologicamente negazionista, non solo rispetto alla natura della vita umana, ma anche, più modestamente, nei confronti del concetto di battaglia.

L’ESSENZA DELLA VITA

Chiunque affronti davvero una battaglia, sia essa contro una malattia, per imparare qualcosa, per riuscire in un lavoro o contro un’altra squadra in uno sport, sa che non esistono ricette sicure per la vittoria e capiterà prima o poi che anche la battaglia affrontata con il massimo dell’impegno, del talento e della tattica si risolva comunque in una sconfitta. È questa la natura della battaglia, giacché la battaglia che si può vincere con assoluta certezza non è tale. Una parte fondamentale dell’età adulta risiede proprio in quello spazio scomodissimo in cui in seguito a una dura sconfitta ci s’interroga sulla adeguatezza delle proprie azioni: il fardello dell’adulto è cioè quello di non poter mai sapere davvero se si è fatto tutto il possibile e ci si è arresi al destino oppure se qualcosa poteva essere fatto meglio conducendo così a esiti migliori. Da bambini seguiamo le indicazioni dei nostri genitori, da adulti tocca a noi l’onere dell’analisi, così come tocca sempre a noi quello, ancora più pesante, del decidere se prendere per buone le conclusioni a cui siamo giunti. Quel che è peggio, il tempo procede su un piano unico e irripetibile, non ci offre mai una seconda possibilità per risolvere lo stesso problema, ci fa semmai dono di un’esperienza che potremmo utilizzare per provare a risolvere i problemi futuri. Questo processo di valutazione, ripensamento e formulazione di nuovi tentativi per interpretare e capire il mondo è la forma più ampia e onnicomprensiva della battaglia, è l’attività principale di una vita.

La battaglia è sempre un campo di possibilità aperte, la vita un tentativo di attraversarlo indenni, il risultato non è mai garantito. Sapere tutto questo equivale a conoscere una delle regole fondamentali dello stare al mondo: chi l’interiorizza può stimare i vittoriosi ma rispetterà sempre i perdenti, soprattutto saprà che prima o poi finirà per provare entrambi i sapori e potrà al massimo ambire ad agire sulle dosi attraverso l’intelligenza, il lavoro e l’impegno. Senza per questo smettere mai di confidare nella fortuna. (Continua a leggere su DOMANI)

Illustrazione Doriano Strologo

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L’età del tribalismo (intervista a Minima & Moralia) http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/ http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/#comments Thu, 10 Sep 2020 08:05:08 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4601 Continua a leggere]]> Di Nicola Pedrazzi

Intervista apparsa su Minima & Moralia il 24/07/2020

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odioappena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio. Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

Prima ancora del senso di rivalsa in De Sanctis è centrale la volontà di trovare un posto nel mondo, cercare cioè una forma di felicità all’interno della società della sua epoca, un’eudemonia aristotelica, una teoria della felicità che prevede per un uomo propriamente detto la ricerca di un equilibro della virtù in mezzo agli altri uomini, non in cima a montagna. In questo senso è significativo quanto conti per la sua formazione un personaggio apparentemente minore come Falzone, il funzionario di Invitalia,  in particolar modo quando gli propone questa citazione di Edgardo Bartoli: «Rifiutare la propria epoca è altrettanto impossibile quanto rifiutare la propria nascita e la propria morte». Non è quindi un romanzo all’insegna della fuga della società, l’abbondono della città, il rifiuto in blocco di un consesso sociale percepito come ormai invivibile o irrimediabilmente ingiusto. In parte capisco un sentimento di questo tipo, il nostro è contemporaneamente un tempo storico comodissimo e assediato ma come autore sono più attratto dall’analisi del presente, dalle sue connessioni con il passato eterno dell’essere umano, mi sembra che nella nostra epoca ci sia davvero moltissimo su cui lavorare. De Sanctis quando accetta di uscire dalla sua bolla di speculazione autoreferenziale, dal moto in cerchi concentrici a cui si stanno riducendo le discipline umanistiche e accetta di provare ad applicare la sua intelligenza al mondo, va dalla teoria alla pratica e gli si aprono molte possibilità: è tutto parecchio faticoso ma per certi versi anche inaspettato e stimolante. De Sanctis quindi accetta la sfida del suo tempo – per quanto possa sembrargli impegnativa – e gli esiti, o meglio il suo personale esito, sono il contenuto del romanzo.

La scelta di ripartire da uno dei protagonisti del primo romanzo è funzionale alla credibilità della scalata da vittima a governante della mutazione tecnologica, ma ti ha anche obbligato a un lavoro complesso, di ripresa, collegamento ed evoluzione di un personaggio che avevamo lasciato in Salento a farsi i cannoni in tenda, e che diviene un manager milionario credibile, pur conservando in sé tutti i segni e le passioni della sua giovinezza. Insomma, come escamotage narrativo non è stata una scelta economica. Il che mi fa pensare che tieni molto a Marco De Sanctis, o alla parentela tra i tuoi due romanzi, seppur diversi. È così? Hai mai pensato di poter raccontare la stessa storia senza di lui?

Sì, ci avevo pensato, non a caso ancora adesso il romanzo si può comunque leggere senza aver letto Lascia stare la gallina e non si perde nulla. È del tutto autonomo. All’inizio avevo anche scritto un’ottantina di pagine della stessa storia ma sulla pelle di un altro personaggio, non un borghese in divenire ma un borghese pienamente compiuto, esponente di una solida realtà intergenerazionale. Avevo fatto ricerche in quella direzione e altre avevo in programma di farne. Avevo usato anche una lingua diversa, più semplice, standardizzata e basica, zero mimetismo, un solo livello di lettura oltre ad un’edulcorazione pressoché totale della sessualità, poi ho buttato tutto. Era profondamente inautentico.

Stavo spendendo un’idea forte in una maniera mediata pensando non alla potenza del romanzo ma a un certo standard di settore. Sono ripartito alla ricerca del personaggio e mi sono reso conto che ce lo avevo già in casa, ci sono alcune caratteristiche che doveva avere, per motivi che non posso svelare troppo ma, insomma, Marco De Sanctis era perfetto, a partire dalla sua storia passata di errore giudiziario.

A un certo punto Marco descrive la professione dello scrittore con la frase «osservo, il lavoro dello scrittore è soprattutto osservativo». Si condensa qui una delle tue tensioni preferite, quella tra mentalità scientifica (che il Marco manager di Before ha acquisito con abnegazione) e mentalità narrante (che Marco possiede in quanto scrittore anch’egli, tanto che tutto il romanzo è steso da lui ex post). Cito da una tua intervista di quattro anni fa, proprio qui su M&M: «Molta della cupezza che percepiamo nei nostri tempi deriva proprio da questa inadeguatezza della mente narrante a cogliere la complessità aperta e irriducibile del mondo globale, […] la realtà globale è sempre più complessa e variegata e le narrazioni politiche e mediatiche si dimostrano sempre più incapaci di rapportarsi in maniera efficiente a questa complessità». Diciamo che il De Sanctis di Odio arriva a possedere entrambe le menti, del racconta storie e del freddo analista.

Quella frase sul lavoro osservativo è detta in una scena con una venatura comica – lui e un suo amico si sono scambiati identità per conquistare delle ragazze, quindi c’è anche una certa ironia amicale nella definizione. Detto questo per me era importante nell’impianto del romanzo riconoscere la centralità culturale delle scoperte scientifiche e di conseguenza della tecnologia nel nostro mondo, perché contribuiscono ormai da lungo tempo a definire il modo in cui viviamo, pensiamo, ci aggreghiamo, amiamo, odiamo. Mi sembra impossibile raccontare il presente senza integrare questi aspetti nella storia. Riguardo quella mia vecchia dichiarazione: sono ancora convinto che esista questo iato incolmabile fra storie e realtà però al tempo stesso ora mi è più chiaro come le storie debbano necessariamente avere anche una funzione sintetica, sono mappe, non sono il territorio.

Il problema quindi non è tanto, o non soltanto, nei limiti strutturali delle storie, ma più che altro nella funzione delle storie nell’ecosistema informativo contemporaneo ovvero in come l’architettura di quest’ultimo definisca in maniera quasi invisibile le modalità di sintesi, in sostanza come il medium sia il messaggio. Sentenza di McLuhan che è sempre vera, ma oggi, con l’ubiquità di internet e un accesso pressoché universale al medium ancora più vera di prima. Queste modalità di sintesi sono all’origine dei nostri sentimenti morali, perché Bene e Male poggiano su degli apriori biologici ma si strutturano davvero in noi solo attraverso le storie.  In un certo senso quindi la mia ricerca su questo tema è andata un po’ più a fondo, ho scavato ancora.

Credo che la fascinazione di Marco per la tecnologia derivi anche dalla capacità della scienza di fornire risposte più solide di quelle delle discipline umanistiche in cui si è formato. Su questo punto si sviluppa una delle «riflessioni maggiori» del romanzo, penso in particolare ai pensieri che Marco mette a punto nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna.

Assolutamente. Nella riflessione sull’arte moderna che De Sanctis fa al cospetto del Compianto del Cristo morto di Niccolò dell’Arca c’è proprio la denuncia delle discipline che sembrano conformarsi totalmente all’idea che non esistano più dei canoni né una possibile ermeneutica dell’opera d’arte, ma soltanto un gioco di potere attorno alla sua accettazione o al suo rifiuto. Si tratta di una visione frutto di quel post modernismo che si sta diffondendo come un virus mortale all’interno della cultura Occidentale. L’idea di base di questa corrente culturale è che ogni forma di gerarchia sia per definizione oppressione, e che ogni individuo non sia un essere umano con la sua profondità, la sua variabilità, le sue paure, le sue speranze, la sua dose di problemi, il suo destino tragico, bensì l’impersonale predeterminato membro di un gruppo che lo definisce in toto.

Quindi non Marco ma «maschio bianco» e come tale costitutivamente, moralmente e qualitativamente diverso da, dico per dire, una «donna nera». In altri termini una visione del mondo al tempo stesso razzista e sessista, il contrario di quell’ethos democratico che prevede l’uguaglianza formale di fronte alla legge senza discriminazioni di sorta. Approcci di questo tipo prendono una parte per il tutto. Le gerarchie, oltre ad essere un elemento ineliminabile di ogni organizzazione umana, si reggono sì sul potere ma anche su altri valori, come ad esempio la competenza, l’affidabilità, la responsabilità eccetera e sono la base di ogni ordine sociale, è come si costruiscono e come si declinano che fa la differenza fra una società e un’altra, ma una società umana senza gerarchie è sempre e comunque un ossimoro. Più importante ancora: le ingiustizie non si combattono con altre ingiustizie, né le discriminazioni con discriminazioni “compensative”, bensì ribadendo e implementando con maggiore efficacia l’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, di fronte alla legge, il che si ottiene anche cercando di dare a tutti possibilità di partenza simili, non certo gli stessi risultati finali. È questo il principio da rinforzare, non una nuova forma di discriminazione o di sessismo «alla rovescia», che finisce per alimentare il tribalismo riportandoci a una situazione pre-patto sociale di guerra di tutti contro tutti e che è in realtà l’esatto contrario del progressismo, anche se si appropria impunemente del nome. L’errore di base è nel considerare la vittima come dotata di capacità ultraterrene – pensare cioè che sia sempre e comunque migliore degli altri esseri umani –, un atteggiamento che poi è precisamente il residuo di quella divinizzazione del capro espiatorio di cui parlava Girard.

In realtà quello che serve è una nuova fondazione, non una vendetta, altrimenti il circolo vizioso non si spezzerà mai. Essendo un italiano cresciuto in Alto Adige ho avuto la sfortuna di vedere sin da bambino come qualsiasi discriminazione «positiva» o «compensativa» nel tempo diventi discriminazione e basta, un’esperienza in cui ho parlato nell’ultimo brano del mio libro Storie dal mondo nuovo.

Ricordo il capitolo, fece discutere. Spiegami meglio cosa intendi per «discriminazione positiva».

Se vuoi ti racconto un aneddoto fresco fresco, che ho saputo proprio oggi da un mio amico di infanzia di Bolzano: le poste in Alto Adige sono sottoposte alla proporzionale etnica dei posti di lavoro, solo che pochissime persone di lingua tedesca vogliono fare i postini – di solito evitano gli impieghi pubblici dato che hanno alternative meglio remunerate, in genere nel turismo e nell’agricoltura sovvenzionata – quindi pur di far arrivare le lettere i posti vengono dati agli italiani che però essendo appunto italiani presi a copertura di posti tedeschi non possono essere assunti a tempo indeterminato – come si farebbe se fossero tedeschi – ma solo con contratti di un anno non rinnovabili. Quindi il mio amico che da quasi un anno porta in giro lettere al posto di un tedesco che fa altro ora perderà il lavoro e sarà sostituito da un altro italiano che fra un anno perderà il lavoro a sua volta. Questo è il genere di discriminazione assurda che si crea quando incominci a ragionare per tribù e a mettere le appartenenze ai vari gruppi sopra le persone, l’Alto Adige è una miniera infinita di follie del genere – tutte nella stessa direzione –, ma quando cresci in un luogo con questo grado di razzismo organizzato, scientifico e accettato e poi vedi che tutto quello che la sinistra nazionale riesce a fare, invece che difendere i diritti delle persone indipendentemente dalla lingua che parlano, è usare “Suditirolo” al posto di Alto Adige e sentirsi così alla moda e illuminata mentre sostiene le stesse persone che applicano politiche razziste come queste, incominci a farti delle domande su questo tipo di meccanismi mistificatori, cioè su come si riesca a girare l’assurdo in accettabile e su come alla fine ad ogni tribù interessino solo i misfatti che rientrano nel suo cono ideologico, per cui se è fuori dal paradigma che un italiano subisca del razzismo in Italia quella cosa smette di esistere, di essere percepita, rimane nelle tenebre perché è un segnale non coerente con il resto della narrazione.

Questo significa ad esempio che riguardo all’Alto Adige il fascismo anche se è iniziato 100 anni fa ed è finito da 80 è sempre di grandissima attualità perché è coerente con la narrazione della minoranza vittima, mentre le discriminazioni anti italiani del presente passano sotto silenzio perché non sono coerenti con la narrazione, sono reali ma per essere capite obbligano ad un pensiero complesso e non bianco/nero. E non è solo una questione dell’Alto Adige ovviamente, il nostro ecosistema informativo rafforza sempre di più questo genere di bias di conferma su tutti i temi:, i segnali coerenti vengono amplificati, quelli non coerenti cancellati. Il risultato è una massiccia polarizzazione e un conformismo opprimenti, a destra come a sinistra. Ogni tribù pensa solo a sé stessa e a confermare le sue tesi, manca sempre di più un consenso su principi universali da applicare trasversalmente, i principi razionali tipicamente occidentali su cui fondare una convivenza basata sulla pluralità di opinioni si dissolvono dentro questa follia arcaica che è l’identity politics e il suo ricatto morale: o stai con noi, ciecamente e sempre, o non sei propriamente umano, sei un incivile. Il merito della questione non conta nulla. Questa ossessione per il controllo ideologico del linguaggio appaiato a una sostanziale indifferenza per i destini concreti delle persone è altrettanto al centro del nostro tempo: la facciata ideologica al posto della realtà, in ultima analisi fa sempre parte di quella lotta di potere amorale a cui, secondo il post modernismo, non esiste alternativa.

Per questo il linguaggio diventa un territorio di una guerra molto dura: quando la lingua si ideologizza la sua scarsa capacità di descrivere il mondo è sempre sul punto di essere scoperta, per evitarlo si mobilita la militanza digitale e si chiedono censure a ogni occasione utile.

Molto interessante. Ne approfitto per insistere sul postmodernismo: Marco ne è figlio, e anche per questo reagisce abbracciando le ragioni della scienza. Secondo te in che relazioni sono post-modernismo e tecnologia?

Stiamo parlando di una corrente culturale per la quale l’illuminismo non è un approccio conoscitivo alla realtà che ha dato frutti senza precedenti e può essere preso e replicato, con enormi benefici, da qualsiasi cultura, etnia, o nazionalità umana, ma, piuttosto, una forma di conoscenza oppressiva tipica della cultura bianca patriarcale. Insomma è qualcosa di apertamente oscurantista, non a caso uno dei suoi nemici di elezione è la scienza, perché, tanto per fare un esempio, la luce va sempre alla stessa velocità, che il calcolo lo faccia un bianco, un nero, una donna o un transessuale – per inciso questa sua universalità è una delle sue caratteristiche più belle – e questo per i postmodernisti è inaccettabile perché per loro ogni cosa è il frutto di una violenta sopraffazione sociale, anche la misurazione dei fenomeni naturali.

Poi naturalmente passano le loro giornate a fare tweet o post sui social con i telefoni o i computer, tutte cose che non potrebbero mai esistere senza la cosiddetta «scienza bianca patriarcale».

Però De Sanctis, e in generale tutto il romanzo, mi pare attraversato da una tensione dolorosa al trovare un senso. La critica al post-modernismo, certo, ma il problema appare di portata molto più ampia.

Questo è un punto fondamentale, il post modernismo è la ricetta perfetta per il caos, ma rimane comunque il fatto che fondare qualcosa di solido in campo umanistico è un compito estremamente, estremamente, difficile. Inoltre la nostra è una società che garantisce un’abbondanza di materiale senza precedenti ma fatica a dare senso alla vita delle persone. Dal punto di vista epistemologico non ci sono insomma grossi dubbi su chi fra scienza e umanesimo sia in possesso di una maggiore approssimazione alla verità – la realtà è lì a dimostrarlo –, tuttavia l’uomo è un animale tribale, rituale, attratto dal simbolismo e dal pensiero magico. Tutte cose con cui la scienza non è in grado di dialogare perché dal suo punto di vista non hanno senso, e possiamo anche accettare che la scienza abbia ragione, ma rimane il fatto che ci siamo evoluti in questa direzione e in qualche modo  dobbiamo farci i conti. In più la tecnologia punta soltanto al suo aumento indefinito e lascia inesplorato il regno degli scopi, così come quello della morale, dell’estetica e di molte di quelle cose per cui vale in fondo la pena di vivere.

Qui per me emerge la centralità fondativa delle storie, in particolare la letteratura rimane un metodo di conoscenza della realtà molto efficace proprio perché aiuta a penetrare negli spazi lasciati vuoti  dalla scienza. Attraverso le biografie, l’aneddotica, gli archetipi o la forza della lingua, la letteratura stimola l’intuizione, l’analogia, e finisce per evidenziare delle assonanze potenzialmente illuminanti fra vita reale e vita immaginaria. La letteratura è una pluralità aperta di discorsi tenuta insieme da un’arte capace di parlare anche alla nostra parte non razionale. È questo che la rende preziosissima.

Anche al di fuori della letteratura trovo parecchio rilevante la tensione tra realtà e racconto. La sensazione, terribile, del nostro presente soprattutto italiano è di discutere, dividerci e pensare lontano dalle faglie della realtà e quindi dalle nostre esigenze, financo dai nostri interessi. Trump siede alla Casa Bianca e noi coloriamo statue, piattaforme-super-editore mietono introiti indifferenti ai contenuti di Salvini o Greta Thunberg e noi facciamo l’esegesi politica delle piazze delle Sardine, Zuckerbeg interviene al Parlamento europeo (difficile ipotizzare che si sarebbe mai sentito in dovere di riferire alla nostra Camera o a qualsiasi demos nazionale su Cambridge Analytica) ma nessun media, nessuna maratona Mentana si dedica all’argomento, in quel periodo facevamo i collegamenti con Di Battista dalle fattorie del Sud America (e il Parlamento europeo a cosa serve? Lo sai quanto ci costa? Ha pure due sedi, aboliamole!).

Il fatto di impiegare risorse narrative così sideralmente lontane dai nostri interessi in campo secondo me ha a che vedere con la decadenza morale e funzionale della politica, con la diffusione del complottismo, con la fragilità delle nostre istituzioni democratiche. In questo senso Odio è anche un romanzo-monito, la dimensione politica di questi problemi è al centro della tua attività intellettuale, di ricerca e scrittura. Mi sbaglio?

Se ho capito bene la domanda la tensione a cui ti riferisci è fra l’abbandonarsi alle forme del dibattito incentivate dalle piattaforme tecnologiche o rischiare l’assoluta irrilevanza.

L’hai capita bene, grazie della sintesi!

Il problema è che le forme che le piattaforme incentivano – perché massimizzano il tempo passato online e quindi gli introiti pubblicitari – sono tutt’altro che neutre e ci stanno polarizzando sempre di più fra estremismo e moralismo, allontanandoci dall’empatia e dall’istinto al metterci per un momento nei panni degli altri. Non credo che prima dei social network una sciocchezza intellettuale come quella di giudicare dei personaggi storici secondo i canoni morali del presente sarebbe uscita da qualche circoletto di estremisti. Certo, la storia l’hanno sempre scritta i vincitori ma il meccanismo per cui delle minoranze rumorose riescono ad imporsi con la violenza digitale sulle maggioranze è un fenomeno peculiare del nostro tempo. È preoccupante perché distorce dei sentimenti morali preziosi, come ad esempio l’antirazzismo, piegandoli ad agende di sopraffazione, trascinando il discorso verso il vortice oscuro della gara a chi è più puro, che è sempre l’inizio di tragedie immani.

Il sogno intellettuale nascosto in questi piccoli prevaricatori è quello di raggiungere il potere assoluto e arbitrario del sacerdote pagano (o del funzionario del partito totalitario) e quindi i lumi sono il nemico numero uno. Se infatti non c’è niente di condiviso né nulla di sensato nel presente, allora non c’è limite all’arbitrarietà del futuro potere rivoluzionario. Ma chi vede soltanto potere in ogni cosa non può che essere il primo a essere ossessionato da esso, è una meccanica psicologica che nel romanzo trovi declinata sul tema del Capro espiatorio: Marco passa da piccolo costruttore di capri espiatori fino a capire il funzionamento del processo del meccanismo sacrificale su una scala molto più ampia.  Quando un tema ci attrae tanto è perché ne abbiamo dentro almeno una parte, niente come la letteratura insegna questa lezione.

Tutto questo ci porta anche al giornalismo, professione che hai praticato e pratichi, che è indissolubilmente legata all’esigenza del narrare e verso la quale sei estremamente critico. Marco è una vittima della mancanza di deontologia giornalistica, così come Ottaviano, integerrimo giornalista di Lascia stare la gallina, è vittima del suo zelo professionale, paga con la vita il fatto di non essere un cialtrone totale. Il mondo politico-editoriale essenzialmente romano in cui i protagonisti di Odio si muovono sull’orlo dalla distopia che avanza è imperdonabile… O è un’attribuzione di responsabilità mia personale?

Dunque, prima di tutto questo è un romanzo, non è un saggio, questo non andrebbe dimenticato. Marco, come tu stesso hai detto, è uno che ha visto la sua faccia pubblicata senza alcun tipo di riguardo su tutti i giornali assieme ad un’accusa di omicidio, come per altro accade abitualmente in Italia, è normale che ora  non veda la categoria di buon occhio. Di più: la sua possibilità di compiere una scalata sociale non dipende solo dalle sue abilità ma anche dal risarcimento che ottiene per la pubblicazione indebita di alcune sue immagini, quindi il tema per lui è fondante, rientra nel ciclo torto-risentimento-vendetta, il suo odio per la stampa non è un vezzo dell’autore, è un pilastro centrale della sua vicenda umana. Allo stesso modo Ottaviano, in Lascia stare la gallina, è un’idealista in maniera quasi comica, non lo confonderei con un mancato premio Pulitzer, è un ragazzo nella più tipica delle fasi iniziali della professione, in cui si pensa inevitabilmente che ogni storia che capiti fra le proprie mani sia la più importante e quella in grado di cambiare il mondo.

È simpatico e si finisce per volergli bene, sul fatto che non sia un po’ un cialtrone a sua volta non ci metterei però la mano sul fuoco. Detto questo la mia idea personale sul giornalismo in Italia è che sia fatto in larga maggioranza da organizzazioni che hanno raggiunto un elevato grado di senescenza interna e che per una serie di motivi, burocratici, legislativi e di opportunità politica, non riescano a rinnovarsi. Ripensare il prodotto per sopravvivere in un’epoca che comunque è oggettivamente molto, molto difficile si è dimostrato un obiettivo al di là delle loro capacità organizzative. Spesso si dice che in Italia il problema sia l’inesistenza di editori puri e può darsi che sia così, può darsi pure che contino, in negativo, quei tratti retorici della nostra cultura nazionale, perché quando hai una diffusa antipatia nei confronti dei fatti e uno spiccato senso di appartenenza ad una fazione è difficile fare buon giornalismo, il problema principale però credo rimanga proprio quello della senescenza delle organizzazioni. Le aziende sono un po’ come le persone, prima o poi perdono spinta interna, si adagiano, indugiano per abitudine e pigrizia in processi ormai superati dal tempo finché non muoiono.

Questo è quello che credo stia succedendo: i giornali si assottigliano, perdono valore e diventano oggetto di shopping a basso prezzo per chi vuole avere un presidio politico; quanto possa durare una situazione del genere non saprei dirtelo. Rispetto al libro questo è un tema rilevante soprattutto per contrasto, nel senso che il mio interesse è rivolto ormai molto più verso le organizzazioni in fase ascendente, ancora in grado di liberare la creatività, di premiare il merito, di ripensare i processi, un interesse che sta alla base della costruzione del personaggio di Marco De Sanctis.

Proseguo un attimo sul filo della responsabilità, perché la seconda riflessione filosofica del romanzo è sul libero arbitrio. Il tema innerva tutta la vicenda, ma è affrontato esplicitamente durante il dialogo che Marco ha con l’amico Emanuele (lo studioso che gli farà conoscere il pensiero girardiano) mentre lo accompagna in macchina a riconquistare Sara, la seconda delle sue donne. Marco stima la ragazza, la compatisce per l’essersi innamorata di Emanuele, e tira in ballo la sua libertà di scelta: non vuole stare più con te, lasciala in pace.

Funzionale alla giustificazione di un misfatto privato, ma la risposta di Emanuele, che è filosofo, è programmatica: il libro arbitrio è una «sciocchezza da americani», un «modello astratto non più compatibile con lo stato attuale delle nostre conoscenze». Insomma per Emanuele nulla è morale, non esistono nemmeno i presupposti per l’immoralità: «La coscienza di una decisione è una finzione narrativa che interviene dopo averla presa». Infastidito da questo determinismo (che gli algoritmi che lo stanno rendendo ricco parimenti gli suggeriscono), Marco testa il suo libero arbitrio fingendo di sterzare con l’auto verso il guardrail. Il siparietto si chiude con Emanuele che lo prega di «non prendere la filosofia troppo sul serio». Cazzeggiando, ma siamo al centro del romanzo…

Siamo sicuramente in uno dei punti in cui emerge lo scontro fra l’ambizione dell’umanista – ma anche dell’uomo tout court – di essere centro e metro ultimo del mondo e l’avanzare della scienza e della tecnologie con le loro sentenze, talvolta sgradevoli per il nostro ego. È vero che – contrariamente alla credenza popolare – la scienza non è latrice di verità immutabili ma di certo è in grado di fornirci delle approssimazioni migliori rispetto a quelle che potremmo ottenere solo grazie alla contemplazione o al dibattito. L’onere della prova fa tutta la differenza del mondo, e la fa a favore della scienza.

Ora, quello che la scienza ci sta dicendo con sempre maggiore insistenza è che molte delle categorie del dibattito umanistico potrebbero in fondo non essere per nulla a fuoco, lo stesso concetto di libero arbitrio potrebbe essere poco più che una finizione narrativa. Capisci bene che si tratta di un’affermazione pesantissima. C’è molto del libro in questo corto circuito, nell’importanza cioè che le storie ricoprono nella nostra vita e nella costruzione delle nostre società, e nel fatto che un giorno l’hard problem della coscienza potrebbe risolversi con la rivelazione definitiva che non esiste nulla come una “scelta”, se non altro non nei termini in cui l’abbiamo sempre pensata. Certo non credo che a quel punto ci rimarrebbero altre reali possibilità se non comportarci come se non avessimo mai ricevuto una notizia del genere e continuare a raccontarci storie dove siamo al centro del mondo e prendiamo tutte le decisioni più importanti da un generatore di senso nascosto da qualche parte dentro di noi.

Ho un po’ di angoscia, io e la mia coscienza ci allontaniamo volentieri da questa discussione… E ti portiamo invece sulla relazione tra esperienza e letteratura. Roma – Bologna – Berlino è l’asse spaziale di Odio. Si tratta di tre città che conosci molto bene, ci hai vissuto e si vede. L’aver toccato con mano spesso conferisce alle tue descrizioni una vitalità «animale», penso a certe descrizioni culinarie, che mi hanno fatto venire davvero fame, o alla straordinaria sequenza al Carrefour, su cui torniamo.

Non ti chiedo quanto conti la realtà vissuta nell’elaborazione della fiction (cose del tipo: esiste davvero quel supermercato?), perché do per scontato che pesi, ti chiedo piuttosto quali misure prendi per tenere a bada l’esperienza personale e far vincere la letteratura. Le diversità sono innumerevoli, ma se dovessi dire un punto su cui Odio è tecnicamente «superiore», diciamo più maturo della Gallina, indicherei la lingua; i personaggi narranti della Gallina, per quanto plurimi, erano tutti più vicini alla lingua dell’autore, che in Odio ha fatto un passo indietro, la tentazione di cercarti in Marco passa molto presto anche a chi ti conosce. Insomma, tra i due romanzi hai costruito continuità ma io vedo anche rottura. Come si lavora sulla propria scrittura?

Il supermercato esiste, nei primi tempi che ho passato a Roma, ormai quasi quattro anni fa, vivevo in una casa che mi aveva prestato un amico lì vicino, alla volte scoprivo alle undici di sera di avere il frigo vuoto e andavo in scooter a comprare qualcosa, ricordo quel posto con grandissimo affetto, è stato il primo luogo di Roma a cui mi sono affezionato, aveva veramente qualcosa di mistico, una pace assoluta, tutta quell’abbondanza silenziosa, la sensazione di essere eccezionalmente vicini al centro simbolico del nostro mondo. Pensa al grado di cooperazione fra esseri umani che è necessario per portare una tagliata di manzo argentina in un supermercato di Roma ad un prezzo tutto sommato contenuto, è una cosa quasi inspiegabile, la dice veramente lunga su chi siamo come specie.

Per me questi sono fenomeni molto più interessanti del sentire qualcuno urlare al megafono come andrebbe governato il mondo secondo lui. Per quanto riguarda la lingua considera una cosa: questo è un romanzo di ambientazione borghese, mentre Lascia stare la gallina è un romanzo di ambientazione popolare, la differenza – considerato il tentativo di mimetismo della mia lingua – è dirimente. Poi sono d’accordo che non sia solo questo, anche a me pare più matura questa lingua, ma mi sembra per certi versi inevitabile, nel tempo scrivendo e leggendo si acquisisce una sensibilità diversa, quando ti trovi di fronte alla pagina diventa diverso quello che cerchi prima di tutto a livello istintivo e poi anche a livello, più mediato, di revisione. Il discorso sulla lingua si articola su moltissimi piani, quello del ritmo – per me importantissimo – quello del mimetismo, particolarmente sfidante in questo caso perché i contesti nel romanzo sono fra di loro molto diversi, così come molti sono i temi che emergono dietro la vite dei protagonisti. Infine non metterei Berlino sullo stesso piano di Roma e Bologna nel romanzo, queste ultime due sono molto più importanti, i due episodi a Berlino sono poco più di una cartina tornasole sul cambiamento di DeSa, un cambiamento che si svolge però tutto in Italia.

La mia scena preferita è proprio quella al Carrefour di via delle Fornaci, ora che so che esiste diverrà meta di pellegrinaggio. Marco ci invita Federica e la incanta con la competenza delle migliori guide turistiche: al posto degli affreschi di Giotto abbiamo gli scaffali di roba, ma poco conta, quello del capitalismo è comunque un tempio. Il fatto che un amore vero nasca lì dentro è simbolico della nostra condizione, vorrei un commento da te su questo. In generale, credo che si possa dire di te quello che ti ho sentito affermare di Michel Houellebecq in una recente intervista: sei, forse insospettabilmente, uno scrittore romantico. Non solo perché costruisci molto bene le scene di sesso, ma perché nei tuoi amori, anche nei più disastrosi, si coglie un che di salvifico, una pepita di senso ancestrale che suona e dice la sua, nonostante la sconfortante ostilità dei contesti e la miseria delle condizioni.

L’amore è il principio unificante per eccellenza, è il motore dell’evoluzione, è in ultima analisi il perché siamo ancora qui, nonostante tutta questa incessante fatica che è la vita. Diventa importante specialmente in un periodo come questo di tensione simbolica di tutti contro tutti, dove le grandi narrazioni sono finite e ognuno sembra lottare soltanto per il proprio gruppo di appartenenza e appare davvero difficile trovare un territorio ideale comune, anche minimo, su cui poi lasciare che si sviluppino delle differenze rispettose dell’altro. In fondo l’amore è un principio che non ha bisogno di essere socialmente fondato, accade, e non si capisce mai bene perché, è un gioco che milioni di anni di evoluzione giocano alla nostra coscienza, la sua imprevedibilità è anche la sua bellezza. D’altro canto come sarebbe stato possibile scrivere un romanzo che s’intitola Odio se dentro non ci fosse stata anche la polarità dell’amore? Non sarebbe stata una storia degna di questo nome.

Il romanzo non ha un’unica trama, per il lettore le fonti di piacere sono molteplici: certo c’è la distopia, il dopodomani cui tutto tende, ma c’è anche tanta vitalità, tanto oggi in cui ci si specchia con momentanea leggerezza. Il trio Marco-Emanuele-Mauro incarna molto bene la dinamica dei compagni di giochi che entrano nel mondo adulto, e che, piano piano, si sentono in dovere di «giustificare» la propria vita agli occhi degli amici. Coinquilini al tempo dell’Alma Mater, Marco è l’imprenditore fattosi da sé, Emanuele lo studioso forte di patrimoni secolari, Mauro lo scrittore di meritato successo, una parabola resa possibile anche dagli agi della sua ricca compagna di nobile lignaggio romano, dedita al sociale e carica di moralismi. «Fossero stati tutti condizionabili senza sapere di esserlo come Cristina, il valore di Before sarebbe stato ruffly 2,5 miliardi», sentenzia, fuori campo, Marco.

Ecco, queste e altre dinamiche relazionali – anche secondarie, si veda il papà di Sara, a mio giudizio il personaggio numero uno seppur sostanzialmente irrilevante nell’economica del racconto – sono costruite con una precisione d’intarsio e un’attenzione all’umano tale che quando lo sfondo politico inghiotte tutto, l’effetto è quello dei bassorilievi dei galeoni in fondo al nero del mare: aveva senso descrivermeli così bene, se tanto sono finiti lì? La mia impressione è che tu non sacrifichi mai i dettagli per due motivi: perché sono belli e meritano in sé, ma anche perché, soprattutto in Odio, è in quei dettagli che fai risuonare il senso complessivo dell’affresco. Con il senno del poi, tutto in Odio è in un certo senso premonitore…

Mi fa piacere che tu l’abbia notato perché in effetti è esattamente così, ci sono voluti quattro anni per scriverlo proprio per questo motivo, non c’è niente nel libro che non risponda al progetto complessivo. E questo è anche il motivo per cui il libro non è un saggio, ma un romanzo e per me era importantissimo che lo fosse nel senso più profondo e letterario del termine. Prendi il breve documento filosofico che il protagonista scrive verso la fine del libro, ogni volta che lo leggo da solo mi sembra buono, ma in fondo insufficiente. Se invece lo leggo assieme al resto del romanzo assume tutta un’altra valenza, ha un respiro diverso, più trasversale, più profondo, lo sento più condivisibile perché so che è l’espressione di una biografia ricostruita con dovizia di particolari. Lo sento nel suo essere il frutto di un essere umano intero, non solo della sua parte razionale: è in questo che il romanzo diventa imbattibile e ci aiuta a navigare anche nell’era della scienza. È una biografia, è una mappa individuale, non ha pretese di assolutezza, non è il manifesto di un partito, è la testimonianza di un uomo come me e te che attraversa il nostro stesso tempo.

Chiudendo il libro – che fatica non spoilerare –, mi è venuta in mente una celebre frase di De André, pronunciata sul palco l’ultimo tour, poco prima di morire: «Non ho mai avuto paura dell’uomo solo, ma dell’uomo organizzato». Anche qui, un’antica dicotomia che tu frequenti da tempo. Il libro si chiude con la netta distinzione tra chi è fuori, consapevole e dunque solo, e chi è dentro, aderente a una nuova organizzazione umana. Non saprei quale delle due condizioni è più spaventosa. Da osservatore della realtà e degli uomini, sei portato a diffidare di più della natura umana o delle organizzazioni sociali? Che idea ti sei fatto della relazione tra le due?

Senti non sono così convinto che DeSa abbia poi capito davvero molto più degli altri. Attraverso le sue scelte di vita anche coraggiose ha visto più cose della maggior parte delle persone e ha scoperto il potere disvelante della tecnologia rispetto alla natura umana, è vero, ma non ho alcun dubbio che nonostante la peculiarità della sua vita, DeSa sia ben lungi dall’aver capito tutto, il costrutto è romanzesco, il pretesto è biografico, Odio non è una teoria del tutto, è qualcosa in cui specchiarsi e vedere se non esce fuori qualcosa d’inaspettato rispetto alla conoscenza dell’animale che tutti siamo. Quanto alla differenza fra natura umana e organizzazioni sociali, esisterebbero le seconde se non fossero nella potenzialità della natura umana? Non credo possano esistere organizzazioni “innaturali”, penso però che ne possano esistere alcune preferibili ad altre.

Un’ultima cosa un po’ personale. Quand’è che chi scrive si rende conto di avere dentro la benzina per un romanzo? Quando lo si capisce, di esserlo, uno scrittore? Anche a livello di senso di appartenenza non me la vedo facile. Ogni giorno si iscrivono alla categoria geni incompresi che, con storie come la tua in mente, si ossessionano con il loro blog autoreferenziale; oppure personaggi diversamente mediatici, che approdano quasi d’obbligo al feticcio libro. Mi viene in mente Zalone ospite da Fazio, che presenta a favore di camera la copertina del volume che non ha ancora scritto, ma che già sa che gli chiederanno e che venderà migliaia di copie. Il titolo provvisorio è, per l’appunto, «Libro». C’è chi giustifica il raccontare e lo scrivere come urgenza «per sé stessi», come terapia, chi la sistema come un gesto di altruismo verso gli altri, chi accetta che non abbia un senso preciso ma che è così e basta. Qualunque sia il tuo movente (e da quello che hai capito, qual è?), come si tiene la barra dritta nel narcisismo che investe chiunque a un certo punto ipotizzi di avere qualcosa da dire e, di conseguenza, un pubblico? Anche quando legittimati dai riconoscimenti, non è abbastanza insopportabile sapersi scrittori? Cosa ti ha spinto, negli anni, a crederlo e a volerlo essere? Che vita è?

Qui ci vorrebbe una di quelle risposte roboanti da festival culturale però ora che hai citato quel genio assoluto di Zalone diventa un po’ difficile farlo senza mettersi a ridere. In realtà non ho una risposta precisa, da quando mi ricordo sono sempre stato interessato a cercare di capire il funzionamento del mondo che mi circonda, ho sempre letto molto, ho quasi sempre cercato di mettermi in situazioni complicate o strane con l’idea che male che andava ne avrei comunque ricavato qualcosa in termini di conoscenza. La tentazione conseguente di costruire una mappa scritta è venuta quasi subito. La mappa è imperfetta, è in divenire, per certi versi del tutto aneddotica e in ultima analisi personale, ma è anche la cosa che so fare meglio e anche una delle pochissime in grado di darmi una parvenza di senso. Quanto al narcisismo, stai parlando di uno che ha scritto il primo libro sotto pseudonimo, però devo dire che nel tempo sono arrivato a considerare un certo grado di narcisismo come qualcosa di sano, anche questa lotta censoria e assoluta contro ogni forma, anche perfettamente sotto controllo, di ego è abbastanza patologica, nasconde altri tipi di egocentrismi ben più contorti e disfunzionali, e si inserisce nei meccanismi dell’odio raccontati nel libro. Poi certo, l’ambiente editoriale è particolarmente ricco di casi di narcisismo patologico, da questo punto di vista è talmente un cliché che può capitare di avere a che fare con delle persone con cui è difficile rapportarsi per il semplice fatto che partono dall’assunzione di base che ogni autore sia di fatto uno psicopatico. Un’assunzione che gli  deve derivare dall’avere alle spalle parecchi precedenti, per carità,  ma resta il fatto che in casi come questi è virtualmente impossibile convincerli del contrario, ad esempio se gli dici «Ti ringrazio ma non c’è bisogno» queste persone pensano «Questo fa finta di fare la persona modesta, che megalomane», è un loop di presunzione di colpevolezza da cui con tutta la buona volontà non è possibile uscire, assomiglia un po’ al dialogo di Bill Hicks con i pubblicitari. Dopo un po’ capisci che in casi come questi l’unica cosa da fare è lasciar perdere e assecondarli. Poi però torni dai tuoi amici e per sbaglio gli rispondi come risponderesti a quel tipo di persona e i tuoi amici ti rispondono «non tirartela eh». Insomma alla fine capisci come si sono creati, tutti quegli psicopatici.

 

 

ODIO è su:

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]]> http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/feed/ 0 Il grande romanzo americano è la Nba http://www.danielerielli.it/il-grande-romanzo-americano-e-la-nba/ http://www.danielerielli.it/il-grande-romanzo-americano-e-la-nba/#comments Thu, 08 Oct 2020 09:51:16 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4647 Continua a leggere]]> Articolo pubblicato su DOMANI il 7.10.20

La NBA, come ogni lega sportiva professionistica, è, prima di qualsiasi altra cosa, un insieme di storie. I tifosi di tutto il mondo amano le grandi giocate ma quello che li appassiona davvero sono le vicende dei giocatori e delle squadre, storie raccontate a fondo e con precisione dai media americani senza i deprimenti infingimenti, l’omertà e le formule vuote che circondano da sempre il calcio italiano. La qualità dello storytelling, insomma, fa il paio con quella dei giocatori. La storia delle storie negli ultimi 15 anni di Nba è stata quella di LeBron James: il prescelto, un giocatore dal talento fisico senza precedenti affiancato a ottime doti tecniche, cresciuto da una madre single nella periferia di Akron (Ohio). Una circostanza questa che è sempre al centro di ogni comunicazione pubblica di James sia esplicitamente (con l’onnipresente hastag #ThekidfromAKRON) sia implicitamente attraverso i modi spesso molti duri con cui si rapporta ai giornalisti di mezzo mondo, come se si trovasse sempre e comunque di fronte a dei privilegiati che dalla vita hanno avuto tutto senza fatica, al contrario di lui. Insomma nonostante abbia guadagnato in carriera quasi mezzo miliardo di dollari, si ritragga spesso impegnato con gli amici a degustare amaroni di Quintarelli, faccia le vacanze in yacht sulla Costiera amalfitana, LeBron ribadisce costantemente che lui lì non ci sarebbe dovuto essere, tutto il suo mondo e il suo modo di giocare – improntato a una ricerca di una dominanza, anche psicologica, che raggiunge talvolta livelli quasi brutali – sembra derivare da questa unica affermazione fondamentale. LeBron è il Re (il suo account Instagram è Kingjames), l’uomo che ha trionfato venendo dal nulla, ovvero il più americano degli archetipi narrativi. Contrariamente a Michael Jordan, che viene spesso ricordato per la sua battuta ecumenica “anche i repubblicani comprano le sneakers”, LeBron negli anni ha usato la sua figura pubblica per molte battaglie politiche a favore degli afroamericani, arrivando anche a scontrarsi direttamente con il presidente Trump che, citando il vecchio spot della Gatorade, ha detto di preferire Jordan (I like Mike).(continua a leggere su DOMANI)

Illustrazione di Gianluca Costantini

Ho parlato di questo articolo su Diderot – RSI 2 – Svizzera

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LA NOTTE DELLA PANDEMIA http://www.danielerielli.it/la-notte-della-pandemia/ http://www.danielerielli.it/la-notte-della-pandemia/#comments Sat, 28 Mar 2020 09:41:56 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4384 Continua a leggere]]> La disastrosa gestione italiana della pandemia di Coronavirus: numeri inattendibili, mancanza di trasparenza e il fallimento definitivo di una classe politica improvvisata. 

La scorsa notte sono uscito sul terrazzo per prendere una boccata d’aria fresca prima di andare a dormire. Roma, di notte, emette un rumore bianco inesausto, da grande organismo che non dorme mai del tutto. Non è niente di sommesso, né di particolarmente crepuscolare, è una specie di rombo, basso, ondulato, persino greve, a tratti. Carlo Levi ha scritto che a Roma di notte “par di sentir ruggire i leoni”. Qualcosa del genere, in effetti.

Ha anche aggiunto “nato da macchine è un suono animalesco, che par venire da viscere nascoste o da gole aperte invano a cercare una parola impossibile (…) è un rumore pieno d’ozio, come uno sbadiglio belluino, indeterminato e terribile”. Di certo c’è che si tratta del risultato più o meno costante di un’addizione mutevole: è il rumore degli affari umani – seppur in chiave minore, notturna appunto.

L’altra notte mi è parso subito chiaro, con l’autoevidenza di un’intuizione istintiva, che la situazione era cambiata. Non c’era silenzio, quello no. Il silenzio autentico, profondo, a Roma è un fenomeno che si presenterà – forse – alla fine dei tempi. Mancava però il respiro collettivo della città e ogni singolo suono era riconoscibile in una sua inedita specificità. Sotto una cupola di nuvole basse e opalescenti sono rimasto ad ascoltare.

Ho udito distintamente il gorgheggiare di due diversi gabbiani, il rumore di un tram che sferragliava di fronte a un ministero nemmeno troppo vicino, il fischio di una macchina per le pulizie dei pavimenti nell’ospedale davanti a casa, un singolo passante che prendeva a calci una bottiglia. Ogni suono separato dall’altro, con delle pause, queste sì, fatte di qualcosa che assomigliava a un autentico silenzio.

Erano assenti i leoni, il rumore bianco indistinguibile, la somma sonora della vita nella città. Non c’era cioè traccia di quella sorta di dichiarazione d’indifferenza e superiorità che la capitale dedica a qualsiasi suo abitante, come un’eterna scrollata di spalle. Era una notte della pandemia, la sua povertà di suoni era il verso della quarantena, la controparte notturna delle molto celebrate canzoni alle finestre.

Quel silenzio era il suono del vuoto, parziale eppure notevole, in cui è costretto il mio Paese in questi giorni. È arrivato come un esito inaspettato, dopo settimane di discorsi contraddittori, di suicide fughe di notizie, di provvedimenti abbozzati, di leader improvvisati che si dimostrano esattamente quello che sono – dei principianti inadeguati –, di medici e infermieri lasciati senza mascherine e protezioni, di tamponi fatti con una metodologia che con ogni probabilità sottostima di diversi ordini di grandezza la reale dimensione della pandemia e di un rito – quello della conferenza stampa della protezione civile– che ogni giorno assume toni più surreali, dato che si recitano numeri che non hanno più alcuna capacità di descrivere la situazione reale del Paese.

Che ogni giorno qualcuno dica che l’Italia è il Paese che ha fatto più tamponi non conta assolutamente nulla, il parametro importante è quanti se ne fanno rispetto all’ampiezza della propria epidemia. Un rito questo della conferenza stampa che prima finirà, o prima sarà sintonizzato sui veri numeri, e meglio sarà per tutti, anche a costo che qualcuno ammetta di aver sbagliato.

Invece questi numeri parziali si continua a darli, si continua a ignorare che i tamponi sono fatti in larga maggioranza solo a ex contagiati e nuovi contagiati altamente sintomatici. Nulla o quasi per gli asintomatici o per i sintomatici normali, lasciati alle tachipirine e alla grazia di Dio nelle loro case, dove molti di loro si aggravano e muoiono soffocati nel giro di poche ore, soli come cani o al cospetto di famigliari impotenti, senza nessuno che li aiuti, senza che nessuno li porti in ospedale visto che in certe zone d’Italia oggi per un’ambulanza possono servire otto ore.

Scene terrificanti, indegne di un Paese democratico, drammi che finiscono per falsare anche il numero ufficiale dei morti visto che nessuno fa i tamponi ai cadaveri. Molti sindaci dei paesi del bergamasco hanno denunciato un’impennata di morti ben oltre la normale media statistica di questo periodo dell’anno, decessi che solo in piccola parte vengono attribuiti al Covid19.

In quei numeri nascosti – la somma di morti ufficiali e non ufficiali – possiamo provare a cercare la vera dimensione della mattanza, e, incrociandola poi con i dati internazionali sulla mortalità del virus, incominciare a capire le vere dimensioni dell’epidemia italiana. Facendolo intravediamo un disastro, un tracollo assoluto, nascosto da una mancanza di trasparenza iniziata forse per assurde ragioni d’immagine (non apparire un paese-lazzaretto per tutelare l’industria turistica) e poi aggravatasi per impreparazione, tracotanza e sottovalutazione.

Cosa pensano in queste ore i parenti delle vittime sentendo il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlare dell’epidemia come di un momento utile per riflettere su sé stessi? Sono parole che sarebbero forse adatte alla penna di uno scrittore o di un filosofo, ma pronunciate da chi ricopre il ruolo di primo responsabile della gestione dell’emergenza, assomigliano di più a uno sfregio fatto a quanto abbiamo di più caro e non sono altro che l’ennesima dimostrazione di inadeguatezza.

È una questione di ruoli, ma è anche vero che se ancora esistesse un rispetto dei ruoli e della preparazione necessaria per svolgerli, Giuseppe Conte, privo com’è di una storia politica e di governo, difficilmente potrebbe essere Presidente del Consiglio italiano. Il dramma è infatti anche quello di essersi trovati di fronte a una crisi senza precedenti con una classe politica anch’essa senza precedenti, ma in negativo. E se in tempi normali sotto un comando inadeguato si vivacchia, ci si avvita in una decadenza inesorabile ma graduale – qualcosa che si può cioè sforzare d’ignorare – la tempesta perfetta mette a rischio la vita dell’intero equipaggio. Il naufragio è una possibilità immediata, chiaramente percepibile da tutti.

Chi si ripete che in fondo molti altri Paesi non stanno facendo poi meglio di noi dovrebbe capire che ragionamenti del genere sono la via più sicura per il collasso definitivo, per la tragedia ultima. Sono gli esempi positivi quelli da seguire, non quelli negativi. L’Italia prova coraggiosamente a reagire alle deficienze della sua leadership, lo fa attraverso l’azione di regioni e sindaci, con l’attivismo dei giornali e con una classe medica che parla pubblicamente e ogni giorno accetta un po’ di meno di essere celebrata retoricamente da un potere che non ha esitato a mandarla al massacro, impreparata e senza protezioni.

Nelle ore in cui Conte saltava da un programma all’altro a dire che il Paese era preparatissimo, i medici in tutta Italia venivano mandati al lavoro senza mascherine. Poi, non disponendo di protezioni in una quantità congrua, non essendosi organizzati per tempo, si è a lungo negata la loro utilità, in sfregio ad ogni logica. Abbiamo avuto conferenze tenute in ritardo mostruoso e senza la presenza della stampa, decreti raffazzonati, annunci contrastanti, fughe di notizie, autocertificazioni cartacee (come fosse il 1800) e cambiate infinite volte.

Abbiamo avuto la retorica degli angeli e l’inno nazionale sparato dalle casse e la bufala del “modello Italia” al posto degli stock di mascherine, delle tute anticontaminazione, degli antivirali anche per i sintomatici a casa, dei tamponi per i potenziali contagiati, anche se asintomatici. Delle app per il tracciamento delle persone in quarantena nessuna traccia. Cose degne di quei regimi che ora sgomitano per comprarsi la benevolenza degli italiani con l’invio di qualche aiuto, fra cui medici che avranno accesso alle nostre informazioni sensibili.

Fra queste nazioni – con estremo sfregio del ridicolo – siede anche la Cina. Un Paese che prima ha lasciato aperti, all’interno di città sovrappopolate, mercati privi di qualsiasi standard sanitario e a rischio spillover, e poi, a infezione iniziata, ha taciuto a lungo, permettendo così alla pandemia di diffondersi in tutto il pianeta. Un’imprudenza che costerà al mondo intero decine di migliaia di morti – nella migliore delle ipotesi – e un numero al momento incalcolabile di miliardi di euro in danni economici. Grazie comunque per le mascherine.

Tutto questo, tutto assieme, è davvero difficile da sopportare, e se è vero che ognuno di noi all’inizio di questa vicenda ha tentennato, si è augurato che la situazione non fosse poi così terribile come si diceva, è vero anche che le responsabilità degli esperti e di chi ha il comando in una democrazia avanzata, di chi cioè ha il dovere di tutelare la popolazione, sono ben diverse.

Da questo punto di vista lo stile di leadership apparentemente conciliante, moderata e prudente di Conte apparirà forse a qualcuno come rassicurante – agli italiani piace da sempre un decisore che non decide – ma all’atto pratico si risolve in inazione o azione ritardata, insufficiente. Il dramma dell’Italia in queste ore è anche il dramma di un Paese che negli ultimi anni si è incaponito nell’idea che al governo vadano benissimo gli incompetenti, gli improvvisati, gli estemporanei, li ha anzi agognati come soluzione – semplice e lineare – ad ogni problema.

È il dramma di un Paese che ha visto degenerare il dibattito televisivo nelle forme sempre meno informative dei talk show urlanti e superficiali e che oggi non riconosce le autentiche autorità nei differenti campi del sapere. È il dramma di un Paese che emargina con determinazione e progettualità le sue teste pensanti e che quando poi si trova alle prese con un cigno nero annaspa, orfano delle sue risorse migliori, e pensa piuttosto a tutelare la propria immagine, il consenso politico del momento, invece che la propria popolazione e il proprio futuro. Finito tutto questo bisognerà fare i conti, bisognerà partire da tutti questi errori, dall’accertamento delle responsabilità per costruire un’Italia profondamente diversa.

Nel silenzio di una Roma quasi spenta, ho immaginato suoni che tornavano uno dopo l’altro a formare il ruggito dei leoni, solo che questa volta erano suoni più intonati, disposti in un ordine migliore, più sensato, un ordine che permettesse di pensare al presente e al futuro con serenità. Una delle tragiche verità della storia è che disastri come guerre, o appunto epidemie, rimescolano le carte, fanno ripartire le società dopo averle quasi distrutte e essersi lasciati alle spalle morti e disperazioni indicibili.

Il problema con le opportunità che i grandi shock possono “offrire” non è soltanto morale – molti devono effettivamente morire ­– ma anche che è necessario lo shock adatto, in fondo una pandemia come quella del Coronavirus può colpire in maniera durissima le popolazioni per via del collasso dei sistemi sanitari ma rappresenta una minaccia ridotta per chiunque possa permettersi un piccolo reparto di terapia intensiva privato in casa, ovvero l’intera oligarchia del pianeta. Anche i meccanismi livellatori che hanno attraversato la storia dell’uomo con drammatica efficacia trasversale, oggi sono messi in discussione dalla tecnologia, per cui ogni teoria sull’apertura di nuovi spazi dopo tragedie collettive va riconsiderata alla luce di questi sviluppi. Fortunatamente però non c’è bisogno di augurarsi come unica condizione per la rinascita che la tragedia in corso diventi ancora più profonda e radicale. Si spera anzi il contrario.

Credo esista un’altra possibilità – ben più allettante rispetto alla distruzione creativa – e sia quella che a farci andare avanti, ad aiutare l’Italia a ripensarsi, potrebbe essere proprio lo spirito di unità e di cooperazione emerso nella nostra società durante le ore e i giorni di questo dramma collettivo. Potrebbe essere questo senso di comunità il lascito prezioso – e altrimenti irraggiungibile – dei sacrifici che per una volta stiamo facendo tutti quanti assieme, come italiani. Mi pare questa la vera promessa del silenzio disteso sopra Roma.

( Questo articolo è stato pubblicato venerdì 27 Marzo su Il Foglio – Foto LaPresse)

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