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L’età del tribalismo (intervista a Minima & Moralia)

Di Nicola Pedrazzi

Intervista apparsa su Minima & Moralia il 24/07/2020

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odioappena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio. Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

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LA NOTTE DELLA PANDEMIA

La disastrosa gestione italiana della pandemia di Coronavirus: numeri inattendibili, mancanza di trasparenza e il fallimento definitivo di una classe politica improvvisata. 

La scorsa notte sono uscito sul terrazzo per prendere una boccata d’aria fresca prima di andare a dormire. Roma, di notte, emette un rumore bianco inesausto, da grande organismo che non dorme mai del tutto. Non è niente di sommesso, né di particolarmente crepuscolare, è una specie di rombo, basso, ondulato, persino greve, a tratti. Carlo Levi ha scritto che a Roma di notte “par di sentir ruggire i leoni”. Qualcosa del genere, in effetti.

Ha anche aggiunto “nato da macchine è un suono animalesco, che par venire da viscere nascoste o da gole aperte invano a cercare una parola impossibile (…) è un rumore pieno d’ozio, come uno sbadiglio belluino, indeterminato e terribile”. Di certo c’è che si tratta del risultato più o meno costante di un’addizione mutevole: è il rumore degli affari umani – seppur in chiave minore, notturna appunto.

L’altra notte mi è parso subito chiaro, con l’autoevidenza di un’intuizione istintiva, che la situazione era cambiata. Non c’era silenzio, quello no. Il silenzio autentico, profondo, a Roma è un fenomeno che si presenterà – forse – alla fine dei tempi. Mancava però il respiro collettivo della città e ogni singolo suono era riconoscibile in una sua inedita specificità. Sotto una cupola di nuvole basse e opalescenti sono rimasto ad ascoltare.

Ho udito distintamente il gorgheggiare di due diversi gabbiani, il rumore di un tram che sferragliava di fronte a un ministero nemmeno troppo vicino, il fischio di una macchina per le pulizie dei pavimenti nell’ospedale davanti a casa, un singolo passante che prendeva a calci una bottiglia. Ogni suono separato dall’altro, con delle pause, queste sì, fatte di qualcosa che assomigliava a un autentico silenzio.

Erano assenti i leoni, il rumore bianco indistinguibile, la somma sonora della vita nella città. Non c’era cioè traccia di quella sorta di dichiarazione d’indifferenza e superiorità che la capitale dedica a qualsiasi suo abitante, come un’eterna scrollata di spalle. Era una notte della pandemia, la sua povertà di suoni era il verso della quarantena, la controparte notturna delle molto celebrate canzoni alle finestre.

Quel silenzio era il suono del vuoto, parziale eppure notevole, in cui è costretto il mio Paese in questi giorni. È arrivato come un esito inaspettato, dopo settimane di discorsi contraddittori, di suicide fughe di notizie, di provvedimenti abbozzati, di leader improvvisati che si dimostrano esattamente quello che sono – dei principianti inadeguati –, di medici e infermieri lasciati senza mascherine e protezioni, di tamponi fatti con una metodologia che con ogni probabilità sottostima di diversi ordini di grandezza la reale dimensione della pandemia e di un rito – quello della conferenza stampa della protezione civile– che ogni giorno assume toni più surreali, dato che si recitano numeri che non hanno più alcuna capacità di descrivere la situazione reale del Paese.

Che ogni giorno qualcuno dica che l’Italia è il Paese che ha fatto più tamponi non conta assolutamente nulla, il parametro importante è quanti se ne fanno rispetto all’ampiezza della propria epidemia. Un rito questo della conferenza stampa che prima finirà, o prima sarà sintonizzato sui veri numeri, e meglio sarà per tutti, anche a costo che qualcuno ammetta di aver sbagliato.

Invece questi numeri parziali si continua a darli, si continua a ignorare che i tamponi sono fatti in larga maggioranza solo a ex contagiati e nuovi contagiati altamente sintomatici. Nulla o quasi per gli asintomatici o per i sintomatici normali, lasciati alle tachipirine e alla grazia di Dio nelle loro case, dove molti di loro si aggravano e muoiono soffocati nel giro di poche ore, soli come cani o al cospetto di famigliari impotenti, senza nessuno che li aiuti, senza che nessuno li porti in ospedale visto che in certe zone d’Italia oggi per un’ambulanza possono servire otto ore.

Scene terrificanti, indegne di un Paese democratico, drammi che finiscono per falsare anche il numero ufficiale dei morti visto che nessuno fa i tamponi ai cadaveri. Molti sindaci dei paesi del bergamasco hanno denunciato un’impennata di morti ben oltre la normale media statistica di questo periodo dell’anno, decessi che solo in piccola parte vengono attribuiti al Covid19.

In quei numeri nascosti – la somma di morti ufficiali e non ufficiali – possiamo provare a cercare la vera dimensione della mattanza, e, incrociandola poi con i dati internazionali sulla mortalità del virus, incominciare a capire le vere dimensioni dell’epidemia italiana. Facendolo intravediamo un disastro, un tracollo assoluto, nascosto da una mancanza di trasparenza iniziata forse per assurde ragioni d’immagine (non apparire un paese-lazzaretto per tutelare l’industria turistica) e poi aggravatasi per impreparazione, tracotanza e sottovalutazione.

Cosa pensano in queste ore i parenti delle vittime sentendo il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlare dell’epidemia come di un momento utile per riflettere su sé stessi? Sono parole che sarebbero forse adatte alla penna di uno scrittore o di un filosofo, ma pronunciate da chi ricopre il ruolo di primo responsabile della gestione dell’emergenza, assomigliano di più a uno sfregio fatto a quanto abbiamo di più caro e non sono altro che l’ennesima dimostrazione di inadeguatezza.

È una questione di ruoli, ma è anche vero che se ancora esistesse un rispetto dei ruoli e della preparazione necessaria per svolgerli, Giuseppe Conte, privo com’è di una storia politica e di governo, difficilmente potrebbe essere Presidente del Consiglio italiano. Il dramma è infatti anche quello di essersi trovati di fronte a una crisi senza precedenti con una classe politica anch’essa senza precedenti, ma in negativo. E se in tempi normali sotto un comando inadeguato si vivacchia, ci si avvita in una decadenza inesorabile ma graduale – qualcosa che si può cioè sforzare d’ignorare – la tempesta perfetta mette a rischio la vita dell’intero equipaggio. Il naufragio è una possibilità immediata, chiaramente percepibile da tutti.

Chi si ripete che in fondo molti altri Paesi non stanno facendo poi meglio di noi dovrebbe capire che ragionamenti del genere sono la via più sicura per il collasso definitivo, per la tragedia ultima. Sono gli esempi positivi quelli da seguire, non quelli negativi. L’Italia prova coraggiosamente a reagire alle deficienze della sua leadership, lo fa attraverso l’azione di regioni e sindaci, con l’attivismo dei giornali e con una classe medica che parla pubblicamente e ogni giorno accetta un po’ di meno di essere celebrata retoricamente da un potere che non ha esitato a mandarla al massacro, impreparata e senza protezioni.

Nelle ore in cui Conte saltava da un programma all’altro a dire che il Paese era preparatissimo, i medici in tutta Italia venivano mandati al lavoro senza mascherine. Poi, non disponendo di protezioni in una quantità congrua, non essendosi organizzati per tempo, si è a lungo negata la loro utilità, in sfregio ad ogni logica. Abbiamo avuto conferenze tenute in ritardo mostruoso e senza la presenza della stampa, decreti raffazzonati, annunci contrastanti, fughe di notizie, autocertificazioni cartacee (come fosse il 1800) e cambiate infinite volte.

Abbiamo avuto la retorica degli angeli e l’inno nazionale sparato dalle casse e la bufala del “modello Italia” al posto degli stock di mascherine, delle tute anticontaminazione, degli antivirali anche per i sintomatici a casa, dei tamponi per i potenziali contagiati, anche se asintomatici. Delle app per il tracciamento delle persone in quarantena nessuna traccia. Cose degne di quei regimi che ora sgomitano per comprarsi la benevolenza degli italiani con l’invio di qualche aiuto, fra cui medici che avranno accesso alle nostre informazioni sensibili.

Fra queste nazioni – con estremo sfregio del ridicolo – siede anche la Cina. Un Paese che prima ha lasciato aperti, all’interno di città sovrappopolate, mercati privi di qualsiasi standard sanitario e a rischio spillover, e poi, a infezione iniziata, ha taciuto a lungo, permettendo così alla pandemia di diffondersi in tutto il pianeta. Un’imprudenza che costerà al mondo intero decine di migliaia di morti – nella migliore delle ipotesi – e un numero al momento incalcolabile di miliardi di euro in danni economici. Grazie comunque per le mascherine.

Tutto questo, tutto assieme, è davvero difficile da sopportare, e se è vero che ognuno di noi all’inizio di questa vicenda ha tentennato, si è augurato che la situazione non fosse poi così terribile come si diceva, è vero anche che le responsabilità degli esperti e di chi ha il comando in una democrazia avanzata, di chi cioè ha il dovere di tutelare la popolazione, sono ben diverse.

Da questo punto di vista lo stile di leadership apparentemente conciliante, moderata e prudente di Conte apparirà forse a qualcuno come rassicurante – agli italiani piace da sempre un decisore che non decide – ma all’atto pratico si risolve in inazione o azione ritardata, insufficiente. Il dramma dell’Italia in queste ore è anche il dramma di un Paese che negli ultimi anni si è incaponito nell’idea che al governo vadano benissimo gli incompetenti, gli improvvisati, gli estemporanei, li ha anzi agognati come soluzione – semplice e lineare – ad ogni problema.

È il dramma di un Paese che ha visto degenerare il dibattito televisivo nelle forme sempre meno informative dei talk show urlanti e superficiali e che oggi non riconosce le autentiche autorità nei differenti campi del sapere. È il dramma di un Paese che emargina con determinazione e progettualità le sue teste pensanti e che quando poi si trova alle prese con un cigno nero annaspa, orfano delle sue risorse migliori, e pensa piuttosto a tutelare la propria immagine, il consenso politico del momento, invece che la propria popolazione e il proprio futuro. Finito tutto questo bisognerà fare i conti, bisognerà partire da tutti questi errori, dall’accertamento delle responsabilità per costruire un’Italia profondamente diversa.

Nel silenzio di una Roma quasi spenta, ho immaginato suoni che tornavano uno dopo l’altro a formare il ruggito dei leoni, solo che questa volta erano suoni più intonati, disposti in un ordine migliore, più sensato, un ordine che permettesse di pensare al presente e al futuro con serenità. Una delle tragiche verità della storia è che disastri come guerre, o appunto epidemie, rimescolano le carte, fanno ripartire le società dopo averle quasi distrutte e essersi lasciati alle spalle morti e disperazioni indicibili.

Il problema con le opportunità che i grandi shock possono “offrire” non è soltanto morale – molti devono effettivamente morire ­– ma anche che è necessario lo shock adatto, in fondo una pandemia come quella del Coronavirus può colpire in maniera durissima le popolazioni per via del collasso dei sistemi sanitari ma rappresenta una minaccia ridotta per chiunque possa permettersi un piccolo reparto di terapia intensiva privato in casa, ovvero l’intera oligarchia del pianeta. Anche i meccanismi livellatori che hanno attraversato la storia dell’uomo con drammatica efficacia trasversale, oggi sono messi in discussione dalla tecnologia, per cui ogni teoria sull’apertura di nuovi spazi dopo tragedie collettive va riconsiderata alla luce di questi sviluppi. Fortunatamente però non c’è bisogno di augurarsi come unica condizione per la rinascita che la tragedia in corso diventi ancora più profonda e radicale. Si spera anzi il contrario.

Credo esista un’altra possibilità – ben più allettante rispetto alla distruzione creativa – e sia quella che a farci andare avanti, ad aiutare l’Italia a ripensarsi, potrebbe essere proprio lo spirito di unità e di cooperazione emerso nella nostra società durante le ore e i giorni di questo dramma collettivo. Potrebbe essere questo senso di comunità il lascito prezioso – e altrimenti irraggiungibile – dei sacrifici che per una volta stiamo facendo tutti quanti assieme, come italiani. Mi pare questa la vera promessa del silenzio disteso sopra Roma.

( Questo articolo è stato pubblicato venerdì 27 Marzo su Il Foglio – Foto LaPresse)

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La colpa è degli altri

Il fallimento di questa classe dirigente improvvisata è l’ultimo atto di una politica italiana che ha ipotecato il futuro per comprare consenso e tentare così di nascondere la gravità della situazione.

Ormai è evidente: il grande assente dal dibattito italiano sul Coronavirus è la questione del debito pubblico. Eppure, se nell’affrontare l’epidemia non ci possiamo permettere il relativo agio di Paesi come la Germania e andiamo invece con il cappello in mano a chiedere soldi ad altri Stati, è proprio per via del nostro debito.

Se all’inizio di questa emergenza l’Italia aveva meno posti in terapia intensiva per abitante rispetto ad altri paesi europei è perché per anni i soldi destinati a questo genere di investimento e alla crescita del Paese sono stati invece spesi (senza alcuna misura) per comprare consenso politico, alimentare clientele, tenere in vita artificialmente aziende decotte e finanziare una macchina burocratica che sembra passare la maggior parte del tempo a impedire agli italiani di lavorare.

Se ora si offrono prestiti – che non si capisce come dovrebbero essere ripagati nel contesto di crisi economica radicale che ci aspetta – o si discute di piccoli aiuti a fondo perduto  – in percentuali del tutto  insufficienti – per ristoratori, operatori del turismo e aziende colpite da Covid, è perché per decenni abbiamo buttato via i soldi che sarebbero serviti ad affrontare situazioni di emergenza come questa e a finanziare quegli investimenti magari in perdita nell’immediato ma utili alla salute del sistema sul lungo periodo, voci di spesa come sanità, istruzione, ricerca. Complice anche un contesto mediatico che – nel bisogno di vendere minuti di pubblicità al prezzo più alto – premia chi la spara più grossa, chi è più retorico, roboante e savonarolesco, la classe politica italiana degli ultimi decenni è stata contraddistinta da una caratteristica trasversale: una pressoché totale mancanza di responsabilità intergenerazionale.

Una quantità sostenibile di debito può avere senso se utilizzata per finanziare la crescita di un Paese, ma negli anni la strategia di base della politica italiana è stata quella di comprare consenso nel presente scaricando i costi sul futuro, in genere ammantando questa ruberia con grandi dichiarazioni di principi. In pratica quello che è stato fatto è un viaggio nel tempo per prelevare dai conti in banca di figli, nipoti e pronipoti, che tanto non essendo ancora nati non possono protestare. Che in Italia il tasso di natalità sia basso tutto sommato è una delle poche cose perfettamente sensate. Questo proprio mentre siamo oggetto delle mire espansionistiche di una dittatura – quella cinese – che per definizione ragiona sul lungo periodo. Il piccolo cabotaggio dell’attuale classe politica italiana rispetto all’enormità delle minacce che ci circondano è sotto gli occhi di tutti e ci rende terra di conquista delle più agevoli.

Il cambiamento che auspicavo nel mio pezzo all’inizio dell’emergenza era esattamente questo: un bagno di realtà sulle condizioni della società italiana e sulla tendenza suicida a farla guidare da persone del tutto inadatte, nel senso proprio di scarsamente competenti e inadeguate all’elevatissima complessità del compito che le aspetta.

Quello che invece abbiamo avuto è stata la grande caccia al Paese cattivo del nord che non vuole cacciare i soldi – domanda, noi cosa faremmo al posto loro? – e l’attacco in stile dittatura morbida contro chiunque sollevasse dubbi sul governo e sul suo operato. Si va dal tipico “E allora Salvini?”, riedizione contemporanea dell’ormai tragicamente famoso “E allora il Pd?” ai grotteschi appelli su Il Manifesto (Il Manifesto!) contro ogni dissenso con la cabina di regia.

Insomma, pluralismo e democrazia rimangono sempre concetti largamente alieni a quella parte dell’opinione pubblica che pare incapace di ragionare se non in termini di clan, famiglia, fazione. Per queste menti naturalmente tribali il merito delle questioni appare un noumeno irraggiungibile, una variabile in fondo del tutto irrilevante quando invece è l’unica cosa che conta ed è quello su cui si dovrebbe concentrare la dialettica delle parti politiche. L’Italia, al contrario, pare bloccata in un eterno o con me o contro di me.

Una delle differenze con la Germania ad esempio è che quando i comitati scientifici parlano alla Merkel, la Merkel, con tutti i suoi difetti, capisce quello che le stanno dicendo e dà tutta l’impressione di ragionare in maniera analitica. La preoccupazione numero uno di Conte sin dall’inizio è invece parsa essere quella di tranquillizzare, mediare, lanciare il sasso e poi nascondere la mano, vedere come si sviluppavano le cose, e in ogni caso comunque mai trattare gli italiani come degli adulti. Insomma nessuna linea chiara se non quella di agire come un vero uomo dei palazzi romani del potere[1], contesto nel quale infatti Conte si è formato: la relazione prima della competenza, la mediazione prima della decisione, la convenienza politica prima della realtà dei fatti, la cosmesi prima della presa di coscienza della gravità della situazione.

Con un atteggiamento del genere non si va lontano in generale, durante una crisi poi i risultati possono essere disastrosi, come infatti è regolarmente accaduto.

La reazione della politica di fronte all’inasprirsi della crisi è stata un’ulteriore sforzo nell’alterare la realtà fino a farci assistere a scene francamente surreali e da italietta come i momenti in cui Conte – durante le sue dirette Facebook – ha spiegato al popolo quanto l’azione del nostro paese contro il Covid fosse tenuta in massima considerazione nel resto del mondo. Come no, con un numero di morti che in quel momento era il secondo più alto del pianeta (ora è il terzo) tutti guardavano al modello Italia.

La vera cifra della considerazione di cui gode nel mondo questa classe dirigente italiana è nel ritardo con cui tutti gli altri Paesi europei hanno adottato misure di contenimento: nessuno ci ha preso sul serio. Ma facciamo finta per un momento che le cose stiano diversamente, che davvero, cioè, l’azione di governo italiana fosse ben considerata dagli altri Paesi, quanta sudditanza psicologica, quanta dichiarazione d’inferiorità contiene un’affermazione del genere? Chi fa i compiti a casa, chi si comporta seriamente, chi non ruba il futuro alle proprie generazioni, chi non reagisce istericamente alle domande dei giornalisti non ha bisogno di sentirsi dire dagli altri che sta andando bene, lo sa già.

Al contrario chi è nella confusione più totale, perché non ha categorie solide per interpretare la complessità e l’estrema variabilità del mondo agisce alla cieca e poi, di fronte al proprio fallimento, evoca apprezzamenti altrui. Insomma prova a nascondersi dietro i pezzi di carta, altro atteggiamento disfunzionale tipico dei sistemi burocratici in aperta decadenza. Si compie cioè il passaggio di responsabilità personale al documento che certifica che là fuori sarà pure tutto in fiamme, ma le carte sono in regola. Lo stesso riflesso pavloviano che porta Conte a dire che all’estero ci apprezzano moltissimo dopo che a due mesi e mezzo dall’inizio dell’emergenza ancora non si fanno tamponi a sufficienza, non è in uso alcuna tecnologia di tracciamento e non sono ancora disponibili in numero sufficiente mascherine e altre protezioni.

Il problema per il governo è che poi la realtà attorno a noi permane, tutti ne facciamo parte e la subiamo. Quello che succede, ad esempio, è che ristoratori e commercianti debbano riaprire – nonostante condizioni sanitarie precarie e (probabilmente) pochissimi clienti ad attenderli – perché lo Stato non ha i fondi per aiutarli e nello stesso momento si vogliono buttare ALTRI 3 MILIARDI per Alitalia, gli ennesimi. Il trucco comunicativo insomma è di corto respiro perché la realtà è fin troppo severa ed è sotto gli occhi di tutti. Un’Italia il cui lo sforzo maggiore della classe dirigente sembra quello di negare l’evidenza non ha futuro.

L’aspetto più terribile di questa situazione è che non sembra esserci nell’orizzonte politico alcun soggetto in grado di intestarsi a buon diritto i concetti di responsabilità e competenza e aggregare attorno a essi un consenso sufficiente a governare il Paese.

Qui il discorso è ampio, la risposta semplicistica è dire che in fondo agli italiani va bene così. Può darsi, anche se non credo. M’interrogo invece se sarebbe possibile nell’attuale contesto mediatico l’emersione di un politico che predichi responsabilità sui conti, visione di lungo periodo, affronti i problemi in maniera analitica e prima ancora di legiferare s’interessi dei meccanismi che regolano la quotidianità dei cittadini invece che limitarsi a fare sparate demagogiche e poi raffazzonare dei provvedimenti che aumentano solo l’entropia legislativa italiana. Mi sembra molto difficile. In maniere diverse i media generalisti da un lato e i social network dall’altro sono entrambi canali comunicativi che premiano l’audience e l’engagement – è così che fatturano pubblicità – e quindi campano di sensazionalismo, di retorica a buon mercato o di quotidiano sacrificio di un capro espiatorio.

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(Esempio di chiarezza legislativa italiana)

Per inciso il sacrificio del capro è l’esatto contrario della responsabilità, perché serve ad allontanare i responsabili dall’azione della giustizia, sacrificando al loro posto qualcuno che non c’entra nulla. È una sorta di meccanismo omeostatico con cui si bilanciano le società primordiali e che si cerca – sempre con un certo affanno, ma l’uomo è tutt’altro che perfetto – di superare attraverso lo stato di diritto e il governo delle leggi. La riemersione del meccanismo capro e con esso dell’impossibilità di individuare le vere responsabilità, segnala sempre l’avanzato stato di decadenza di una società, il ritorno, cioè, alle sue forme primitive, alla guerra di tutti contro tutti.

Le esigenze sensazionalistiche dei media contemporanei – afflitti da una radicale crisi del modello di business –  sono tuttavia una condizione strutturale comune a tutte le democrazie occidentali avanzate, che pur in affanno non sembrano, almeno nella maggior parte dei casi, trovarsi in situazioni drammatiche quanto quella italiana.

È quindi nella specifica declinazione nazionale – la maniera cioè con cui questa situazione tecnologica-industriale dell’informazione impatta su una specifica cultura – che va ricercata una parte delle cause della nostra situazione.

In sostanza l’unione fra una cultura retorica e idealistica come quella italiana mal si sposa con dei mezzi di comunicazione che hanno un’uguale ritrosia nei confronti dei fatti, dei dati, dei numeri e, potremmo spingerci dire, del semplice argomentare logico.

Come uscirne?

[1] Un interessante ritratto di questo mondo scritto da un insider è contenuto in  “Io sono il potere”, Feltrinelli, 2020

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Il cortocircuito della campagna per cancellare Netflix

 

( Questo articolo è apparso su Domani il 18/09/2020, illustrazione di Doriano Strologo)

Nel momento in cui scrivo la campagna di boicottaggio #CancelNetflix ha raccolto 640mila firme in tutto il mondo e causato una grossa perdita in borsa al titolo del gigante americano. Soprattutto, #CancelNetflix si è dimostrata una campagna estremamente simbolica di alcuni meccanismi chiave del nostro tempo. Questo, in breve, il riassunto di quello che è accaduto: Netflix ha messo online Mignonnes, un film francese premiato al Sundance film festival – un’opera che tratta dell’ipersessualizzazione delle bambine – e lo ha annunciato attraverso una locandina in grado di attirare l’attenzione di quel genere di persona che sta tutto il giorno su Twitter a controllare che non ci sia per sbaglio al mondo qualcosa che non risponda esattamente al suo volere per poi denunciarlo seduta stante. Nel caso specifico l’immagine ritraeva le attrici preadolescenti di Mignonnes nella scena più disturbante del film, il climax drammatico del lungometraggio, il momento cioè in cui, vestite come le ballerine dei video musicali, si esibiscono in pose ricalcate in maniera grottesca e inquietante su quelle delle loro omologhe adulte. Il risultato è stato un boicottaggio globale contro il film, accusato immediatamente di istigare alla pedofilia. (continua a leggere su Domani)

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COSA NON TORNA NELL’ULTIMO EPISODIO DI GAME OF THRONES

!Spoiler alert; serie 8 episodio 5!

(siete avvisati, anche se dopo tutto questo tempo dalla messa in onda o l’avete visto o non vi interessa veramente)

Come tutti gli appassionati di Game of Thrones sanno la penultima puntata in assoluto della serie è stata molto divisiva. Specie nel mondo anglosassone si sono moltiplicate le accuse agli sceneggiatori di essere “lazy” per aver adottato una sequenza di soluzioni narrative un po’ troppo semplici e quindi in contrasto con l’estrema accuratezza che ha caratterizzato la serie, o, quanto meno, l’ha caratterizzata fino alla sesta stagione. Credo che alcune di queste accuse siano fondate, ma che giunti a questo punto della storia le opzioni fossero al tempo stesso limitate. Vediamo perché.

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(Uno scorpio: da infallibile missile Patriot a cerbottana in sette giorni)

In molti si concentrano sulla mancanza di motivazioni solide dietro al raptus di follia assassina di Daenerys, e questo è, come vedremo più avanti, sicuramente un tema interessante. Lo snodo narrativo però più palesemente indegno di una storia come Game of Thrones è quello che riguarda gli scorpio, ovvero i balestroni anti-drago che sono rispuntati (dopo potenziamento) ovunque nel corso della 4° puntata della stagione, quando, nell’ordine, hanno abbattuto con disarmante facilità uno dei draghi (riducendo la flotta di rettili volanti di un notevole 50%), messo in rotta Daenerys con il drago rimanente e distrutto una quantità indefinita di navi Targaryen. In questo video ufficiale HBO lo staff della serie spiega genesi e potenza invidiabile dei nuovi scorpio. A questo punto chiunque, vedendo i balestroni appollaiati non solo sui ponti delle navi ma anche sulle torri di cinta di King’s Landing, è stato quindi (appositamente) portato a pensare: ecco una vera Ztl per draghi. Il che cambiava di parecchio le prospettive sulla battaglia successiva. Cambiava anche le quote-scommessa sulla corsa al trono perché con un altro abbattimento Daenerys si sarebbe ritrovata priva di draghi incenerenti e a quel punto il fatto che non sia mai stata proprio simpaticissima sarebbe potuto emergere presso le sue truppe. Lo scopo principale della 4° puntata sembrava essere quello di convincerci che l’armata Cersei grazie alla flotta di Euron + mercenari della Golden company + (soprattutto) nuova contraerea, fosse in una condizione di parità, se non addirittura di superiorità. Questo specie se si pensa per un momento anche agli ettolitri di Wildfire nascosti nei cunicoli della città, e che potevano essere usati, con il più tipico dei Cersei-move, per creare un Vietnam inespugnabile, a spese anche dei residenti di King’s landing, gente che tutto sommato avrebbe anche qualche ragione per non pagare le addizionali comunali. .

Insomma il cliffhanger della 4° puntata suggeriva apertamente possibili (serie) complicazioni sulla strada del legittimismo targaryano.

Già qui comunque avevamo assistito a una scena assolutamente non coerente con la real politik delle vecchie stagioni di Game of Thrones, quando cioè un minuto drappello con tutta l’élite dragomunita dei Targaryen si era messo a portata di scorpio e di arcieri di fronte alle mura di una città governata da una psicopatica conclamata come Cersei. La Lannister però dimostra che nelle scuole di Casterly Rock non si studia Tito Livio e si lascia miseramente sfuggire l’opportunità di tagliare tutti gli alti papaveri del fronte nemico e terminare così vittoriosamente la guerra senza nemmeno combatterla. Un’ingenuità decisamente poco Cersei. E già qui in molti abbiamo storto il naso.

La puntata numero cinque nasce comunque sotto gli auspici di una battaglia campale, poi però succede l’inspiegabile: Daenerys cala dal cielo con il suo ultimo drago e distrugge in circa 20 secondi tutta la flotta di Euron (non il piccolo drappello di navi che aveva abbattuto un drago con facilità bambinesca la puntata prima, ma tutta la flotta) dopodiché passa agli scorpio sulla costa e a quelli sulle mura, i quali dal canto loro dimostrano la precisione di tiro dei terroristi arabi nei film americani anni 80, ovvero non prenderebbero un elefante (o un drago) da 5 metri di distanza. In un paio di minuti senza nessuna spiegazione plausibile Daenerys distrugge quindi forze parecchie volte superiori a quelle che qualche giorno prima l’avevano messa in fuga con la codona di drago fra le gambe.

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(abbiamo scherzato)

Questo passaggio è talmente imbarazzante da un punto di vista narrativo che viene saltato a piè pari in entrambi i behind the scenes pubblicati da Hbo dopo la puntata ( questo e questo ). E stiamo parlando di speciali che spiegano sempre la genesi di tutti i passaggi importanti delle puntate. In questo caso invece no, probabilmente era un momento troppo indifendibile.

Perché una scelta del genere?

Il problema qui per gli sceneggiatori stava nel fatto che dopo la battaglia con i White Walkers si sapeva che Daenerys poteva scendere a King’s Landing e fare un grosso barbecue della città. Il massimo dilemma era quello morale, ovvero come prendere la città senza arrostire nel mentre tutti gli abitanti, gli stessi che, per inciso, si erano fatti malamente abbindolare da quel Beppe Grillo di Westeros che era l’High Sparrow. Insomma interessante, ma –gli sceneggiatori devono aver pensato– fino a un certo punto. Quindi serviva aggiungere tensione sulla battaglia imminente. Benissimo. Il problema è che, come abbiamo visto, poi non si prendono la briga di risolverla.

Come avrebbero potuto fare diversamente?

La prima opzione che viene in mente è che qualcuno della folta élite targaryana avrebbe potuto trovare il modo di rendere inutili gli scorpio, un Tyrion che corrompe il capo della guarnigione contraerea, un Ser Davos che infiltra dentro le mura un commando di assassini per uccidere gli operatori dei balestroni, un Samwell Tarly che fa sapere via corvo che esiste un batterio in grado di distruggere il legno di cui sono fatti gli scorpio. Quello che volete, pensandoci un po’ sopra di sicuro possono uscire idee migliori di queste. L’importante in questo scenario è che chi offre la soluzione al problema della contraerea faccia parte in una maniera o nell’altra dell’entourage di Daenerys. Immaginate che intensità ne sarebbe scaturita se fosse stato John Snow ad aprire la via al drago che subito dopo avrebbe incenerito decine di migliaia di innocenti. Sussurra ora, nordico che si scopava sua zia.

Il problema qui sta probabilmente nelle implicazioni successive, è molto probabile che affinché il finale si riveli d’impatto sia necessario coltivare una sensazione di onnipotenza di Daenerys. Se il suo successo in battaglia fosse subordinato ad una momentanea sospensione delle attività contraeree causata dei suoi stessi uomini, allora il suo dominio sembrerebbe meno imperioso, meno irrevocabile. E questo non va bene, perché quando e se sarà invece revocato sarà necessario che ciò avvenga attraverso il superamento di una notevole difficoltà e non, quindi, in venti secondi come fosse una flotta di Euron qualsiasi. Vedete qui quindi la contraddizione di scopi: da un lato per sostenere le sei puntate della stagione 8 bisognava comunicare la battibilità dei draghi (draghi onnipotenti stufano subito), dall’altra si era creato a questo punto della storia il bisogno di fornire di nuovo a Daenerys dei mezzi insuperabili. Da qui nascono quei due minuti imbarazzanti in cui spazza via tutto l’esercito nemico senza nessuna pretesa di plausibilità narrativa.

Si potevano trovare soluzioni alternative? Probabilmente sì, ma a questo punto dovrebbe essere evidente come non si trattasse di un compito facile, anzi.

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(Daenerys esporta la targaryancrazia a King’s Landing)

Infine la questione dell’ammattimento subitaneo di Daenerys. In realtà la cosa è stata annunciata più volte durante la serie ma sempre attraverso una serie di cenni e riferimenti che si sono dissolti dentro l’enorme massa narrativa di 8 stagioni caratterizzate da una miriade di storylines. Si poteva lavorare meglio sui cenni dell’imminente pazzia? Anche in questo caso probabilmente sì, ma senza esagerare, altrimenti Snow, Tyrion (che fa bruciare vivo il suo migliore amico), e il resto dell’oligarchia si sarebbero resi moralmente complici del massacro. Insomma, si trattava di un equilibrio sottile. Il problema vero qui sta nel fatto che Daenerys può avere dei motivi per cercare una vendetta sanguinosa nei confronti dei Lannister e in genere del potere kingslandiano, ma non si capisce – proprio non si capisce – perché dovrebbe bruciare vivi i residenti della città, così come parte delle sue stesse truppe.

Razzismo anti-westeros? Cos’altro?

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( E se li uccidessi tutti? La butto lì eh)

Nei behind the scenes ufficiali l’argomento viene trattato ma si parla soltanto di una vendetta contro gli usurpatori. Perché questa vendetta debba attardarsi a bruciare vivi degli innocenti rimane inspiegato. In ultima analisi anche questa è una sciatteria, se l’odio anti-Lannister si estende a tutto il popolo di Westeros va bene, ma sarebbe stato utile vedere uno o più episodi che con il senno di poi potessero rivelarsi seminali per questo tipo di razzismo estremo nella bambina dell’ovest diventata donna ad est.

Comunque la si metta, anche tenendo conto del fatto che le conclusioni sono sempre molto più difficili delle orchestrazioni intermedie e che qui la gestione del materiale era veramente complicata, rimane il dubbio che il vecchio George Martin avrebbe probabilmente ottenuto risultati migliori. Certo però impiegando molto, molto, più tempo.