Daniele Rielli » Blog http://www.danielerielli.it Daniele Rielli - IL FUOCO INVISIBILE è in libreria Tue, 30 Apr 2024 15:07:09 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.2.19 RocAntica 27,28,29 Luglio http://www.danielerielli.it/rocantica-272829-luglio/ http://www.danielerielli.it/rocantica-272829-luglio/#comments Fri, 21 Jul 2023 12:21:55 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4995 Cover (2)

 

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ODIO http://www.danielerielli.it/odio/ http://www.danielerielli.it/odio/#comments Wed, 10 Jun 2020 12:28:40 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4465 Continua a leggere]]>  

  IN LIBRERIA

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DICONO DI “ODIO”:

“Daniele Rielli ha scritto un grande romanzo sulle ossessioni della nostra epoca”

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“Un ritratto chirurgico e spietato”corriere-della-sera-logo

“Una cornice letteraria tecnicamente perfetta”

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“Come nei miti classici ci si brucia le ali volando incontro al sole”

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“Un romanzo rutilante, ambizioso, curato nei dettagli”

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 “Cinquecento pagine di profetiche deflagrazioni epocali “

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“Uno sguardo profondo sulla nostra condizione”

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  “Mette i brividi” 

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“La trama e il sistema dei personaggi sono articolati e catturano il lettore in modo incalzante, con colpi di scena,

relazioni sentimentali, cambi di scenario “

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 “Un fremito di rivolta che tutti abbiamo contro noi stessi

e la gigantesca balla che siamo diventati”

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 ” Un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, (…)

e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta».”

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Una piccola selezione delle interviste e degli interventi pubblici su Odio è qui.

 

ODIO è in libreria e su:

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( la voce nel trailer è di Francesco Montanari )

 

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La gallina è tornata. http://www.danielerielli.it/its-back/ http://www.danielerielli.it/its-back/#comments Thu, 17 Jun 2021 08:43:52 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4803 LSG cop web

Gli inizi di DeSa, l’epopea di Salvatore Petrachi, il lato oscuro del Salento.

La nuova edizione cartacea nel Oscar Mondadori è nelle librerie e qui,l’audiolibro letto da FRANCESCO MONTANARI è in esclusiva su AUDIBLE con l’abbonamento (anche con prova gratuita di 30 giorni) o come acquisto singolo.

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“STORIE DAL MONDO NUOVO” IN LIBRERIA http://www.danielerielli.it/daniele-rielli-storie-dal-mondo-nuovo-recensione/ http://www.danielerielli.it/daniele-rielli-storie-dal-mondo-nuovo-recensione/#comments Thu, 27 Oct 2016 14:29:23 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=3806 Continua a leggere]]>

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(2° edizione)

 Dicono di “Storie dal mondo nuovo”

Tanti pezzi diversissimi di mondo tenuti insieme dalla capacità di guardare i fatti e tradurli in narrazione, genere nel quale Rielli eccelle come Carrère o Tom Wolfe .

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Rielli aggiorna al terzo millennio un’idea classica del reportage narrativo, quella novecentesca dei Parise e Vassalli, Ceronetti e Piovene, Manganelli e Tabucchi fino a Tiziano Terzani. Brillantezza linguistica, scelta delle fonti, incisività, ritmo, indipendenza e libertà di pensiero sono le sue armi

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Alla mente torna il geniale Foster Wallace di “Considera l’aragosta

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Rielli possiede un controllo della lingua che lo sottrae ai velleitarismi pirotecnici che sono, invece, uno degli abiti ricorrenti della prosa italiana attuale

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Raramente ho trovato qualcosa di più inusuale e godibile nella descrizione della realtà. Daniele Rielli, ricordate questo  nome

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Daniele Rielli è la prova che in Italia anche il talento conta

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Si ride e si spalancano i neuroni

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Magnifici reportage

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Storie dal mondo nuovo, un rimedio contro la post-verità

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 “STORIE DAL MONDO NUOVO”

(Da Adelphi.it) I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell’elefante – nel cuore della Puglia. L’incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l’inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online. Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere.

alcune interviste a proposito di “Storie dal mondo nuovo”

La Stampa (video) 

La Lingua Batte- Radio Rai Tre

Minima Moralia
Comedy bay

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PDR PODCAST http://www.danielerielli.it/pdr-podcast-1/ http://www.danielerielli.it/pdr-podcast-1/#comments Fri, 06 Nov 2020 12:02:30 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4697 Continua a leggere]]> podcast_rielli 3000x3000

 PDR è il mio nuovo podcast dove dialogo senza limiti di tempo e vincoli di attualità con artisti, scrittori, giornalisti, scienziati, sportivi e persone interessanti in generale, un luogo per provare ad uscire dall’automatismo delle risposte scontate e, spero, anche per far incontrare fra loro idee diverse e lontane. Tutto con la massima libertà di espressione.

Il podcast è disponibile  su: YouTube, Spotify,Apple PodcastGoogle PodcastAnchor

PDR è un progetto indipendente, abbastanza folle e piuttosto complicato da realizzare, se ti piacciono le puntate e vuoi contribuire con una piccola donazione (3 euro) alla sua realizzazione puoi farlo partendo da qui.
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ULTIMI EPISODI:

 




PDR #26 FABIO MARTINI

PDR #25 GABRIELE FERRARESI

PDR #24 VITALIANO TREVISAN

PDR #23 SUPREMAZIA QUANTISTICA con SIMONE SEVERINI

 

 

PDR #22 I SEGRETI DI SANPA con PAOLO BERNARDELLI

PDR #21 GUIA SONCINI:L’ERA DELLA SUSCETTIBILITÀ

PDR #20 ROBERTO RECCHIONI:NON CANCELLATE LE STORIE

 

 

PDR #19 WALTER VELTRONI: OLIVETTI,SAMI MODIANO E ALTRE STORIE

PDR #18 GIANFRANCO PACCHIONI: L’ultimo Sapiens e il riscaldamento climatico.

PDR #17 DOMENICO STARNONE: Basta il talento per fare l’artista?

PDR #16 LUCA RAVENNA: La comicità ha dei limiti?

PDR #15 GIANMARCO POZZECCO: Una vita clamorosa

PDR #14 STEFANO FELTRI: Il potere delle piattaforme, censura, Cerbero e fare un giornale oggi.

PDR #13 ANNA ZAFESOVA – RUSSIA: Come sta Putin, chi sono gli oligarchi, il metodo Navalny.

PDR #12 AMEDEO BALBI – VIVIAMO IN UNA SIMULAZIONE?

PDR #11 EMANUELE FELICE  – Perchè il Sud è più povero?

PDR #10 FLAVIO FERRARI ZUMBINI – IL TURISTA ESTREMO

PDR #9 LUCA BIZZARRI – -Il rischio di realizzare i propri sogni.

 

PDR #8 AGNESE CODIGNOLA – Lsd, ketamina e vaccini.

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BEST OF PDR :

PDR#1 GIPI

Crescere nell’età del vittimismo

PDR#7 LUCA RICOLFI

Quanto dura la società signorile di massa?

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PDR #2 NICOLA LAGIOIA

Roma e il delitto Varani

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PDR #5 BEATRICE MAUTINO

CONTRO NATURA?

PDR #6 NICOLÒ MELLI

Giocare nella Nba

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IL PARADIGMA CHIARA FERRAGNI http://www.danielerielli.it/chiaraferragni/ http://www.danielerielli.it/chiaraferragni/#comments Wed, 08 Jan 2020 09:27:24 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4367 Continua a leggere]]> (una versione più breve di questo pezzo è uscita sull’inserto culturale de Il Foglio il 4.01.2020 – Foto LaPresse)

Rispetto a Chiara Ferragni le reazioni più comuni sembrano essere due: interesse accompagnato da quella trasognata ammirazione di superficie che si riserva alle vite inaccessibili ai più (sul genere insomma delle “vite dei reali”, ma modernizzato) oppure l’odio generato dall’invidia, dal rancore, dall’esclusione. Personalmente credo di far parte di una terza fazione, la minoranza, comunque cospicua, di coloro che messi di fronte al racconto articolato su più canali della vita di Chiara Ferragni più che odio provano soprattutto noia.

La visione del documentario prodotto da Amazon Chiara Ferragni Unposted mi risulta cioè prima di qualsiasi altra cosa noioso in forma davvero quasi insopportabile mentre – sembra assodato anche dall’esistenza del documentario stesso – milioni di persone dentro questi brandelli di pose, sezioni di vite quotidiane e problemi che si fa anche fatica a chiamare tali (quali scarpe mi metto? Queste o quelle?) devono senz’altro vederci un valore d’intrattenimento. Un mistero che invita alla riflessione visto che la risposta “sono tutti idioti” non è una risposta quanto piuttosto, questa sì, un’idiozia. Quello che segue è quindi un umile tentativo di decifrazione.

Prima di tutto Chiara Ferragni è simpatica, di una simpatia semplice da ragazza lombarda comune e con un forte accento. Come la maggior parte delle icone pop la Ferragni sembra un po’ più intelligente della media (non geniale ma certo non stupida), un po’ più bella della media (non di una bellezza paralizzante ma certo non brutta), dotata di amiche che parlano proprio come le tue amiche e di quegli amici gay e cool che tante ragazze di provincia vorrebbero avere per sentirsi nella grande città o dentro una serie tv. Se la rockstar di un tempo era una persona dotata di almeno un talento artistico eccezionale e grazie a esso aveva accesso a una vita pazzesca, Chiara Ferragni è più simile alla tua amica carina scaraventata dentro una vita da star senza che si capisca bene il perché. O almeno questo è il messaggio. Dentro questa vita pazzesca la Ferragni fa esattamente quello che farebbe la tua amica. È il vecchio archetipo from rags to riches del cinema hollywoodiano o la riproposizione del gioco a premi televisivo. Perché Chiara Ferragni potresti essere anche tu e senza bisogno di imparare a cantare o recitare o, ancora, ricevere in eredità milioni di dollari. Non è vero, ma tutto cospira per fartelo pensare.

In un piccolo siparietto la Ferragni racconta, subito prima di incontrare Paris Hilton, di aver letto un libro in cui l’ereditiera insegnava come essere una milionaria. Quello che conta però è la battuta successiva dove la Ferragni dice pressappoco “tralasciando il fatto che devi avere i milioni”. Scena successiva davanti alla casa über-kitsch dei cani della Hilton e Fedez chiede, in italiano, “Ma ci pagate l’Imu?”. In un’altra scena una modella saluta la Ferragni e subito Fedez fa un video in cui dice “e poi lei ha salutato Chiara e anche me” tutto emozionato. La cifra dunque è evidente: sono due simpatici inadatti, fanno cose semplici e sono inopportuni quanto l’italiano che diventiamo più o meno tutti quando siamo all’estero. Permettono di sognare cose banali ma proprio per questo condivise. Soprattutto hanno creduto in sé stessi quando tutti li criticavano e guarda ora dove stanno. Insomma, successo a parte, sembrano quasi identici al loro pubblico.

La seconda caratteristica della vita da star senza essere delle star in un campo specifico è che Ferragni e il suo staff sembrano dei travet in trasferta. Tutti MacBook e pianificazione, sono prima di tutto imprenditori dell’immagine, il sogno milanese nella sua accezione più diligente. Stanno a Los Angeles o a Miami ma non danno mai l’impressione che finite le riprese si drogheranno, faranno del sesso di gruppo, né berranno molto o faranno altre cose stupide ma epiche per poi ritrovarsi il giorno dopo in un hangover clamoroso a sorvolare l’oceano su un volo privato e pensare alla semplice, rassicurante ma ormai irrimediabilmente lontana, ingenuità dei loro giorni poveri. Questi cliché sulla vita da star appaiono irrimediabilmente sorpassati.

Ferragni e i suoi sembrano perfettamente pacificati, capaci di vivere adagiati e iper-professionali sopra un inesauribile flusso di endorfine, like, consigli di amministrazione e branded content, la tristezza appare una sensazione confinata, in dosi omeopatiche, a quei giorni in cui hai poche proposte di sponsorizzazione. Per capirci, il trauma fondativo nel documentario è il divorzio dei genitori, first world problem per antonomasia. L’unico nemico sono gli haters, categoria sommamente fastidiosa, è vero, ma ormai lo sanno anche i bambini: è soprattutto gente che rosica.

Questa medietà positiva e inoffensiva, senza scossoni, è precisamente quello che piace ai brand che vogliono accesso ai milioni di followers senza complicazioni: messaggi semplici, controllati, mai controversi, il più possibile universali, quindi minimi. I due livelli, verità e finzione, sembrano fondersi fino a perdersi l’uno nell’altro grazie al minimo comune denominatore della medietà assoluta. Non la medietà economica o di riconoscibilità – si capisce che non è questo il caso – ma la medietà di pensiero nel senso di complessità del rapporto con l’esistenza. Bisogna prendere in considerazione l’ipotesi che il documentario non dica in fondo molto su Chiara Ferragni non tanto per le mancanze della regista quanto perché forse non c’è molto altro da dire e che questa mancanza di contenuti associata a un’amabilità di superficie – a matrice universale – sia precisamente l’origine del successo planetario della protagonista e in fondo sia anche l’unico tema che valesse la pena di affrontare parlando della Ferragni.

Che una narrazione appaia del tutto priva di polarità negative è però una sorta di novità storica. Ogni cultura umana è stata sempre caratterizzata trasversalmente dalla convinzione che l’atto fondativo del raccontare storie avesse bisogno di una certa dose di drammi e di ostacoli, di difficoltà e di sconfitte, assieme a qualche vittoria strategicamente posizionata. L’empatia che le storie sono in grado di generare si è sempre basata anche sulla condivisione della difficile condizione umana. Si conquista Troia, sì, ma a che costo. Si raggiunge la Terra Promessa, ma non è un viaggio che rifaresti volentieri. In questa specie di racconto a bassissima intensità che invece è la vita condivisa di Chiara Ferragni non c’è traccia di autentica drammaturgia (l’apice sono degli eventi rappresentati come monadi perfette e confezionate: il matrimonio, la nascita del figlio), c’è in compenso una ragazza un po’ sopra la media per alcuni aspetti che parla ossessivamente di sé, articola la sua visione del mondo in assunti che paiono presi di peso dai dialoghi di una soap.

Un codice verbale il cui apice si raggiunge nella ricostruzione dello scontro/cancellazione dalla vita della Ferragni del primo fidanzato e co-fondatore del piccolo impero aziendale, un episodio che si articola su un numero quasi letale di frasi fatte del tipo “non conosci mai veramente le persone” o il momento in cui lei confessa al collaboratore che se è riuscita superare questo (ovvero la nascita del primo figlio) può superare qualsiasi altra asperità. Al mondo nascono ogni anno circa 130 milioni di bambini, la nascita di quello della Ferragni però più che come un fatto umano con una sua importanza emotiva ed esistenziale viene tratteggiato con la deferenza reverente con cui si narrerebbe un evento che divide le acque. Il risultato è una caricatura, una soap opera, appunto.

Chiara Ferragni si muove per luoghi iconici, indossa vestiti costosi e per alleggerire il tutto non perde mai la sua già citata inadeguatezza da ragazza di provincia. Per altro anche nel vestirsi non sembra seguire una direzione stilistica precisa o, parrebbe, conscia. Nei filmini di famiglia della giovane Chiara si vedono viaggi in giro per il mondo e una bambina felice, tutto sotto lo sguardo costante di una telecamera. La sua vita da influencer appare come una continuazione monetizzata di quei filmati. Non sembra esserci in palio nessun altro valore aggiunto per lo spettatore oltre al piacere di osservare dal buco della serratura un tipo di felicità che sembra presa di peso dalle promesse delle pubblicità e che, infatti, diventa pubblicità a sua volta.

Forse conta che sia tutto immediatamente a portata di dito mentre le storie a cui eravamo abituati richiedevano tempo ed energie cognitive per essere consumate e comportavano l’esposizione ad effetti collaterali come l’emergere di una certa tristezza, della sensazione che la vita sia in fondo fin troppo dura o anche soltanto un po’ malinconica. È possibile che sia necessario allargare lo sguardo e pensare al tipo di fruizione che viene fatta dei contenuti prodotti da un influencer: spezzettati e inframmezzati alla vita del follower, quasi senza una vera soluzione di continuità.

Un’ipotesi è quindi che il racconto della Ferragni sia perennemente positivo e non conosca polarità negative perché queste ultime sono già contenute, e in abbondanza, nella vita dei possessori dei telefoni dove scorre la sua vita idealtipica. L’atto di sbloccare l’iPhone ogni dieci minuti, spiare Instagram e poi rimettere tutto in tasca mentre il capo parla, finisce quindi per far sbiadire ulteriormente, fino quasi a scomparire, i confini fra la realtà e la rappresentazione. Secondo questa direzione d’indagine la vita della Ferragni e dei suoi colleghi sarebbe l’ultima versione disponibile, la più avanzata, di quella sorta di opera d’arte totale che nasce dalla progressiva unione di autore e fruitore.

Osservando quindi dalla giusta distanza l’immutabile legge della narrazione sembrerebbe ristabilita: la vita è difficile ma ci sono anche dei bei momenti. La differenza è che si tratta di un racconto scisso: l’influencer porta all’economia della storia solo le polarità positive, mentre il follower apporta le polarità negative. Dall’unione nasce la storia condivisa: l’influencer è sempre anche un po’ un amico virtuale.

Ma che dire della polarità positiva? Avanza nella mente dello spettatore del documentario l’ipotesi finale, quella più angosciante, ovvero che questi giovani e abili imprenditori della medietà siano in fondo perfettamente felici così – nel loro perenne stato di negazione di qualsivoglia difficoltà – e che tutta quella insoddisfazione e ineliminabile turbamento che hanno accompagnato la storia umana fossero in fondo una questione di cattiva organizzazione. Fossero cioè l’eredità di padri e madri che crescevano i figli dentro paradigmi culturali disfunzionali, della mancanza di medicinali, di cattiva alimentazione o di stili di vita scorretti, abuso di droghe, poco movimento fisico, nessun like sui social, redditi troppo bassi. Risolte tutte queste cose – nel caso dei like risolte alla grande –, disciolta ogni ideologia con le sue inevitabili incrostazioni, gli ostacoli alla felicità sembrano improbabili o, meglio ancora, del tutto incomprensibili. La chiamavano poesia, ma era indigestione, parlavano di tragedie ma la realtà è che non avevano un buon personal trainer. È un’ipotesi che prende piede ogni giorno di più in Occidente e, bisogna concederlo alla scienza, nemmeno fra le più assurde.

Alla fine arriva però l’unico momento di verità del documentario a smentire l’ipotesi di una novità antropologica così radicale, l’idea, cioè, di una pacificazione assoluta. È la confessione – in lacrime – dell’ansia esistenziale di Chiara Ferragni rispetto alla prospettiva di non essere nessuno, di non lasciare un segno in questo mondo. Un turbamento con il quale per la prima volta è possibile sentire qualcosa che risuona (il richiamo profondo di una verità sulla condizione umana), una tensione che la Ferragni risolve con una strategia perfettamente simbolica del tempo storico: di fronte alla sua assoluta intercambiabiltà, alla sua mancanza di talenti che giustifichino uno stato di eccezionalità, Chiara coagula abilmente consenso attorno al racconto di una medietà assoluta e attraverso questo consenso, questo esercito di like e di occhi in osservazione da rivendere ai brand, raggiunge uno stato di decisa negazione della medietà: diventa una star. I fan la amano, ma se c’è proprio una cosa che Chiara Ferragni non voleva nella vita è essere come i suoi fan. I fan, d’altro canto, sono d’accordo: non è un granché essere loro. Complessivamente il messaggio è di un nichilismo assoluto e come tale perfettamente in tono con l’epoca. Va da sé che come detto la Ferragni sia in realtà un po’ sopra la media in praticamente ogni campo, ma giusto quel tanto che basta per rimanere comunque credibile nella recita della medietà assoluta.

Questa recita digitale della medietà come via maestra per lo stato di eccezione, per il raggiungimento di fama e di riconoscibilità – la negazione esatta della medietà anonima – sta al cuore della nostra epoca, è lo stesso meccanismo alla base del consenso dei politici populisti e rappresenta l’uso più efficiente dell’ecosistema digitale. È la differenza che si crea nell’atto di negare ogni differenza. La tecnologia, ancora una volta, dà la forma alla sovrastruttura culturale, la determina in maniera ineluttabile. Alla fine della visione del documentario ho ripescato questa poesia di Michel Houellebecq, perfetta, credo, per chiudere un pezzo su Chiara Ferragni unposted:

Sono in un sistema liberale

Come un lupo in un terreno incolto,

Mi adatto relativamente male

Cerco di non fare storie.

(…)

Sono a metà delle vacanze

Come un attore senza sceneggiatura,

Ma so che altri danzano

E che si riprendono con la telecamera.

Qualche storia, tuttavia, mi sembra qui di averla fatta.

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Dentro l’odio – Intervista http://www.danielerielli.it/dentro-lodio/ http://www.danielerielli.it/dentro-lodio/#comments Sat, 04 Jul 2020 11:58:53 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4498 Continua a leggere]]> 71hfb5l1Q6L

Questa intervista è tratta da un più ampio approfondimento

di Claudia Consoli e Antonella Sbriccoli pubblicato sul sito di Mondadori

Cominciamo dal titolo per inquadrare il tuo monumentale romanzo. Quali sono secondo te le principali forme di odio del nostro tempo?

Nella nostra epoca sono finite le grandi narrazioni, le risposte univoche, le persone hanno la libertà e il peso (le due cose vanno sempre assieme) di cercare il proprio personale senso della vita. Al tempo stesso la società occidentale tende a eliminare dalla sfera della consapevolezza il dramma, la morte, il sacrificio e sembra avere un solo mandato imperativo: essere felici. Un’esortazione che arriva senza il libretto d’istruzioni, per così dire, ed è un vero lavoro dopo il lavoro, fenomeni come il turismo di massa, il ritorno del pensiero magico, l’individualismo spinto fino a una dimensione patologica sono solo alcune delle risposte diverse che vengono date a questo impegnativo – e storicamente nuovo – mandato culturale.

Questo quadro culturale si fonde con la rivoluzione digitale: internet, e in particolar modo i social network, hanno creato un nuovo piano orizzontale della comunicazione, dove chiunque può esprimersi pressoché liberamente e raggiungere potenzialmente grandi pubblici. In sostanza mezzi di comunicazione universali e nessuna gerarchia del discorso, anzi, una progressiva disgregazione del logos a favore di forme più immediate di comunicazione. Il risultato è la tensione che vediamo online, la tribalizzazione della società in bolle e clan che non comunicano fra di loro, si limitano ad odiarsi per partito preso, anzi è proprio l’automatismo nella direzione del loro odio a definire i confini del gruppo. L’esistenza di un pluralismo si dà solo all’interno di un quadro di regole condivise da tutti, regole che oggi sono sotto l’attacco del potere primordiale dei clan, la cellula primitiva della società umana che si ripresenta nella realtà digitale. In parte si tratta anche di un’illusione ottica dovuta alla pervasività dei mezzi di comunicazione digitale – in grado di illuminare tutto e moltiplicare all’infinito ogni segnale – perché complessivamente la nostra è una società dove la violenza fisica diminuisce, aumenta però – quasi esponenzialmente – quella verbale e simbolica, un avvitamento in cui estremisti e guerrieri del politically correct non fanno che rinforzarsi a vicenda. Non è detto che a un certo punto tutta questa energia che è nell’aria non si scarichi a terra.

Odio esplora a fondo alcuni temi chiave della contemporaneità, due fra tutti il modo con cui la tecnologia viene piegata ad ascoltare e misurare la vita intima degli esseri umani, e il commercio sfrenato dei dati, petrolio della rete.  Quanto credi che le persone siano davvero consapevoli di questi fenomeni? E cosa vorresti dire loro con il tuo romanzo?

 “Odio” è la biografia immaginaria, ma verosimile, di un giovane uomo con una storia da errore giudiziario alle spalle che si costruisce un posto di spicco – dopo aver iniziato la sua età adulta in tutt’altra maniera – in uno dei pochissimi settori che offrono grandi opportunità alle persone della sua generazione: il commercio di dati personali. Il libro ha molti strati, quindi il percorso professionale è solo una parte di una vicenda umana molto più complessa e articolata, ma la vera natura del suo lavoro, le sue potenzialità, sono all’inizio oscure anche allo stesso protagonista e questo dà la possibilità ai lettori di scoprirle assieme a lui. Non credo ci sia una consapevolezza diffusa su questi temi, forse dal punto di vista dei dati oggi viviamo in un periodo per certi aspetti simile a quello in cui non esisteva alcuna norma antinquinamento perché nessuno si poneva neppure il problema. In questo caso però non è detto sia possibile tornare indietro o anche solo creare delle norme efficaci: i dispositivi e le piattaforme che sorvegliano ogni istante della nostra vita sono ormai troppo pervasivi, ci servono a organizzare la vita, a lavorare, a essere raggiungibili, a stare con gli altri e ci danno in cambio importanti ricompense neurologiche in grado di generare dipendenza. Rinunciarvi del tutto in questo momento storico significherebbe condannarsi all’eremitismo, anche potendoselo permettere non è detto che sia una scelta auspicabile, in ogni caso è un prezzo enorme da pagare, il che non fa altro che evidenziare il potere smisurato dell’industria digitale.

Nel libro ci racconti che la più antica delle tecnologie umane è il capro espiatorio. Quali sembianze prende nel tuo libro e nella società che descrivi – così attuale e distopica allo stesso tempo?

Nella crisi del logos in occidente di cui parlavo prima, c’è anche la crisi di tutto l’apparato deputato a creare senso all’interno di una società: c’è scarsissima fiducia nel giornalismo e quasi nessuna nelle istituzioni e nella politica, un forte declino della diffusione di religioni e ideologie unificanti. Tutto questo è accompagnato dall’emergere di una concezione post-modernista della verità secondo la quale ogni gerarchia interna alla società è il frutto esclusivo di una lotta amorale per il potere.

Si può vedere questa tendenza in azione a molti livelli, dalle università anglosassoni dove le persone non sono più considerate come individui dotati di diritti inalienabili e uguali di fronte alla legge ma come membri di questa o quella maggioranza/minoranza, gruppi che li definiscono in toto, oppure in quei movimenti populisti che denunciavano (almeno finché non sono andati loro al potere) la corruzione costitutiva di ogni politica, o, a un livello ancora più immediato, si ritrova in quei genitori che insegnano ai loro bambini che non ci sono regole ma solo la capacità di farsi rispettare, a qualsiasi costo.

Sono solo tre esempi della stessa disgregazione di un senso condiviso, un mutamento filosofico su cui si è innestata, a fare da moltiplicatore, la rivoluzione digitale che ha reso possibile il piano orizzontale del discorso di cui parlavo prima. A questo punto ci troviamo in una situazione che ricorda per alcuni aspetti – non tutti, è una tendenza, non ancora una realtà compiuta – lo stato pre-civile di guerra di tutti contro tutti, una situazione in cui manca un principio unificante.

Nell’antichità l’uomo ha sempre risolto il problema di questa tensione mimetica fra individui diversi (tutti vogliamo le stesse cose che vogliono gli altri, ma le risorse sono limitate) attraverso il principio del capro espiatorio, una vittima innocente che viene sacrificata per pacificare la tensione interna alla società e permettere così una nuova unità sociale. Nel tempo la vittima viene santificata e diventa una divinità, fino a quando non si perde la memoria del sacrificio e rimane solo un nuovo dio, il ricordo della violenza collettiva è cancellato. Questa è la lettura del meccanismo fondativo del capro espiatorio che faceva l’antropologo francese René Girard: De Sanctis la sposa in toto dopo averla vista riprodotta in forma simbolica nel mondo digitale.

Come autore mi interrogavo da molto tempo sulla spietatezza che mostriamo sui social, sulla tendenza che abbiamo più o meno tutti ad accanirci su persone di cui in fondo non sappiamo niente, se non uno scampolo di informazione apparentemente controverso. Quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook è stato Peter Thiel, allievo e seguace di Renè Girard (ha ripreso, declinandole in chiave aziendalista, molte delle sue tesi nel suo libro Zero to one e finanzia una fondazione di studi girardiani), ho capito di essere sulla buona strada.

Orgoglio, angoscia, tensioni irrisolte, ambizione: Marco De Sanctis, il protagonista del tuo romanzo, è talmente complesso da apparire inafferrabile. È colui che nessuno conosce ma che ci conosce tutti. Com’è nato questo personaggio? E quali sono le cose che lui odia di più?

 Marco è un personaggio articolato e soprattutto in divenire, come ogni personaggio romanzesco che si rispetti il suo punto di partenza è molto distante da quello di arrivo e anche dalle posizioni che occupa nelle varie fasi della storia.

La sua caratteristica fondamentale credo sia la voglia di applicare la propria intelligenza al mondo, anche se questo significa per lui mettersi contro tutto quello in cui ha creduto fino a quel momento e contro il suo gruppo di appartenenza. Non è un personaggio che fugge dal suo tempo, un topos molto praticato nella letteratura italiana contemporanea, bensì una persona che prova a dare una chance alla sua epoca, a entrarci dentro e poi accettare le conseguenze della sua scelta. Il dispiegarsi inesorabile di queste conseguenze è il romanzo.

Per quanto riguarda quello che odia, direi le persone incapaci di mettere in discussione le proprie credenze e, ancora di più, quelle che parlano continuamente di ideali astratti e nobilissimi e poi nella pratica si comportano come dei capi tribù.

Da questo punto di vista De Sanctis è di un’onesta intellettuale che qualcuno potrebbe trovare anche disturbante, perché in genere tutti ammantiamo le nostre vite di storie e storielle che ci aiutano ad edulcorare la dura realtà delle cose, lui invece sembra essere costitutivamente incapace di questo movimento cosmetico. Lui stesso è quindi la prima vittima di questa intransigente lucidità perché la vita di uomo fuori dall’atto di raccontarsi storie è davvero molto dura. La sua teoria del capro espiatorio va letta proprio in questo senso: non è una teoria scientifica sulla realtà, ma una grande narrazione che fornisce a Marco degli appigli operativi, una mappa per un mondo che ne è privo.

Le mappe che la letteratura può ancora ambire a costruire sono esclusivamente mappe biografiche, esempi di esseri umani che qui e ora si confrontano con il loro tempo. La presa di un senso superiore, assoluto, universale, è ormai destituita di plausibilità se non come capacità di sentire il respiro del tempo e interrogarsi sugli obblighi di una biologia forgiata in milioni di anni di evoluzione, proprio là dove tutto sembra futuristico riemergono per questo istinti antichi: sono parte indelebile di noi. L’esergo al romanzo, una frase proprio di Girard, è chiaro a questo riguardo: “L’idea che le credenze di tutta quanta l’umanità non siano che un’ampia mistificazione, alla quale noi saremmo pressoché i soli a sfuggire, è a dir poco prematura”. La tensione qui non è solo nei confronti del post modernismo relativista in cui si è formato intellettualmente il protagonista del romanzo e che diventa sempre più opprimente in Occidente attraverso il politically correct, ma anche verso il Mondo Nuovo in cui entra: quello della tecnologia, un ambiente che coltiva, in modo neppure tanto nascosto, l’idea di costruire un uomo radicalmente nuovo, un tentativo già provato molte volte nella storia della specie, sempre con esiti disastrosi. Questa volta però è un’operazione con qualche chance in più di riuscire perché ha dalla sua uno strumento potentissimo: la scienza. La biografia di De Sanctis – ovvero Odio – è sospesa precisamente fra queste tensioni, è il tentativo di una mappa personale: individuale, umana perché talvolta contraddittoria, in ultima analisi letteraria.

Anche la politica fa la sua comparsa tra le mille pieghe di questa storia. A volte è colei che manipola, altre viene manipolata. 
Esiste per te nel nostro futuro la speranza di coniugare politica e tecnologia in un modo sano o la tecnologia si è ormai irrimediabilmente trasformata nella principale arma di controllo politico?

La politica, come tutto il resto, si uniforma alle esigenze delle piattaforme sociali, se vuoi arrivare a un pubblico, essere premiato dall’algoritmo, devi conformarti alle loro esigenze che sono quelle di sfruttare gli istinti umani per tenere le persone più tempo possibile sul sito mentre gli viene somministrata della pubblicità. Questo significa semplificare e giocarsi alcune “monete” che in quell’ecosistema informativo funzionano meglio di altre, una di queste è sicuramente l’odio, l’altra è il suo apparente contrario, ovvero il moralismo, che poi è l’odio ricoperto da una presunta superiorità etica. Complessivamente è un sistema di incentivi che in politica finisce per premiare i cialtroni, a destra come sinistra. Oggi le parti politiche si scontrano con toni sempre più accesi, ma chi fornisce la matrice di questa nuova politica sono sempre le piattaforme. O obbedisci o non esisti e quindi non prendi voti. Lo stesso principio si può applicare a molti altri settori professionali, ma per quanto riguarda la politica ci stiamo giocando la democrazia occidentale come la conoscevamo per massimizzare i ricavi pubblicitari delle piattaforme. Questo, per me, è il principale tema politico della nostra epoca, il problema costitutivo, diciamo.

Nel libro Marco De Sanctis fa esattamente questo movimento, dopo aver lavorato per un po’ per la politica si rende conto che il vero potere oggi sta altrove, allarga lo sguardo dal dipinto alla cornice e si rende conto di quanto quest’ultima sia importante nel determinare il contenuto del quadro. Nel momento in cui il medium è diventato universale e si trova nelle tasche di chiunque, l’affermazione di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” ha assunto un grado di assolutezza sconosciuto nell’era delle emittenti radio televisive e della stampa.

Sentimenti e sessualità s’intrecciano lungo i salti temporali del romanzo e diventano a loro volta strumenti per esercitare il potere sugli altri. Esiste un esempio di amore “puro” all’interno di Odio? E, più in generale, può esistere secondo te amore slegato dalla dimensione di controllo? 

 L’amore è il principio unificante per eccellenza, è la forza di attrazione nascosta nella biologia, è il principio generatore posto al cuore della trama profonda della vita, è l’unica cosa a cui è possibile aggrapparsi in tempi di temi di Kaos, in particolar modo in un universo privato di dio l’amore rimane l’unico principio universale. Quanto al controllo, un personaggio ossessionato dal controllo in questo campo era il protagonista di Lascia stare la gallina, ma in Odio controllo e amore non sono temi che si incontrano, c’è questo amore autentico e profondo per una donna di nome Federica e una serie di incontri meramente strumentali, che giustamente De Sanctis definisce “incontri fra egoismi opposti”, che sono esattamente la cifra del sesso nel mondo post modernista, se ogni cosa è potere allora anche il sesso sarà una transizione di mercato in cui si organizza un negozio temporaneo fra quantità di potere compatibili, niente di più. In altri termini il trionfo dell’egoismo. La cosa è vista dalla prospettiva di un uomo, perché De Sanctis è un uomo ma potresti cambiare il suo punto di vista con uno femminile e non cambierebbe nulla. È una condizione trasversale. Non è un caso che solo quando De Sanctis abbandona questo genere di visione dell’esistenza che gli è stata insegnata all’università, s’immerge nella vita pratica e si apre alla possibilità che esistano delle trame immutabili nella storia della specie umana, si dischiude davanti a lui la possibilità di un amore autentico.

Decadente, ricoperta di spazzatura e dominata dai gabbiani: Roma è la quinta scenica del tuo romanzo e ci ricorda le atmosfere da fine impero. Come scrittore che rapporto hai con questa città?

Per una persona nata e cresciuta al Nord, seppur con un genitore del profondo Sud, Roma è, soprattutto all’inizio, una creatura molto sfidante, ci sono tutta una serie di cose che in altri posti sono semplicissime che a Roma diventano di una complicazione notevole, il lavoro di vivere diventa un compito estremamente impegnativo, la quantità di cose che non funzionano è talvolta annichilente. Detto questo se si cambia paradigma culturale, si rallenta il ritmo di vita, si assume un atteggiamento più fatalista è un posto dove si può anche arrivare a vivere bene, la bellezza credo che nessuno la metta in discussione e in fondo sono anche contrario all’idea che tutti debbano uniformarsi all’impersonale paradigma efficentista del capitalismo anglosassone – distruggendo millenni di storia culturale in ogni parte del mondo – e quindi se pure apprezzo molto l’organizzazione e il cooperativismo emiliano devo riconoscere che c’è una forma di resistenza allo Zeitgeist anche nel familismo romano, nell’indolenza come regola di vita. In un certo senso in Occidente Roma è la cosa più simile al residuo di un’epoca precedente, anche questo la rende una specie di organismo vivente inafferrabile che sembra davvero in grado di dare l’illusione dell’eternità. È una città che spesso ti fa arrabbiare e poi però è in grado di darti ricompense del tutto inaspettate, è la perenne eccezione alla regola. Questo è anche il motivo per cui Marco De Sanctis la sceglie come sede per la sua azienda, gli piace l’ironia della cosa ma anche quella specifica tonalità umana che di certo non potrebbe più trovare a Londra.

Sei autore di romanzi, testi teatrali, reportage e sceneggiature: come convivono nella tua esperienza le tante forme della scrittura? E ce n’è una che senti più tua?

Il romanzo, senza dubbio. Le altre forme di scrittura che citi possono essere divertenti e appaganti, servono ad acquisire informazioni non solo sulle cose ma anche sugli uomini e a sviluppare le proprie capacità ma il romanzo è la forma più completa dove la mia ricerca si può esprimere più a fondo e senza mediazioni.

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ODIO è su:

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I miti non moriranno mai, la letteratura si vedrà. http://www.danielerielli.it/i-miti-non-moriranno-mai-la-letteratura-si-vedra/ http://www.danielerielli.it/i-miti-non-moriranno-mai-la-letteratura-si-vedra/#comments Tue, 29 Jun 2021 15:02:10 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4818 Continua a leggere]]> obj92578071_1

Questo pezzo è apparso su Domani il 24 maggio e fa parte del dibattito Su Contro l’impegno” di Walter Siti (Rizzoli)- Illustrazione di Doriano Strologo. 

“Contro l’impegno” di Walter Siti è un saggio colto e profondo che risulta, non senza una certa ironia, più “necessario” di tanti libri che vengono presentati come cure per questa o quella patologia sociale. Essendo sostanzialmente una raccolta di interventi (editi e inediti) non è un libro particolarmente sistematico ma questo non significa che manchi di una sua coerenza, di un suo spirito unitario. Personalmente indentificherei questa unità non tanto con la polemica contenuta nel titolo – quella contro l’impegno – quanto con quella più ampia contro il paradigma dell’efficacia – immediata, commerciale, di corto respiro – come criterio per giudicare un’opera letteraria. L’efficacia va quindi qui intesa non solo come politica ma anche, e forse soprattutto, come di mercato e neurologica, nel senso cioè dell’essere in grado di fornire rapide ricompense cerebrali al lettore, soprattutto ricompense positive, come quelle che scaturiscono dalla sensazione di appartenenza a un gruppo, dalla consapevolezza di poter vantare una netta superiorità morale sul resto del mondo o dal postulare che la vita sia tutto sommato bella e meritevole di essere vissuta, forse persino potenzialmente giusta. Il distinguo non è banale e nella prima parte del suo libro Siti compie quindi un’analisi delle condizioni di ricezione delle opere nel nostro tempo storico, stigmatizzando l’approccio frettoloso che deriva dal mutato ecosistema informativo – oggi istantaneo, parcellizzato, costitutivamente superficiale ed emotivo – , un panorama in cui i tempi lunghi e le ricompense differite della letteratura appaiono anacronistici, cosi come sembra fuori sincrono la richiesta dei romanzi letterari di essere letti e assimilati nella loro interezza, forse persino macerati nel tempo e rifrequentati durante le diverse fasi di una vita.

Siti non ne parla ma sarebbe stata interessante anche qualche parola sulla letteratura da incipit, libri cioè che diventano oggetti posizionali (da esibire in salotto, da citare in conversazioni) sulla base delle prime pagine, le uniche, sembra, che i più abbiano ormai il tempo di leggere, tanto che una parte importante del mercato editoriale pare ormai essersi orientato oltre che verso i libri brevi – di rapida e indolore lettura – anche alla ricerca di grandi incipit forse più che di grandi libri (si pensi a Ohio di Stephen Markley, romanzo con uno splendido primo capitolo che si rivela poi decisamente fuori scala rispetto al resto del libro). Siti parla in compenso della sparizione dei finali e del declino della “spina dorsale” nelle opere letterarie “alte”, confinate alla frammentazione totale o alla non-selezione dell’oggetto narrativo (come nel ciclo “La mia lotta” di Karl Ove Knausgård).

Il discorso è molto interessante e potenzialmente fecondo ma con una scelta non scontata Siti preferisce dedicarsi ad un’analisi minuziosa di autori che sono più pop che letterari come Saviano, D’Avenia o Catozzella e prendere sul serio i saggi di Michela Murgia. D’altronde è lì che si annida il tentativo contemporaneo, spesso goffo, di creare una nuova mitologia su basi ideologiche, un’operazione che è precisamente il contrario della letteratura, se per letteratura intendiamo, come sembra fare Siti, un’indagine profonda sull’uomo, una ricerca capace di andare oltre gli schieramenti sociali e le appartenenze contingenti, disinteressata, cioè, a marcare continuamente la sua ortodossia politica e orientata piuttosto ad immergersi nella polisemia dei significati, abbracciare la contraddizione insita nello stare al mondo.

Il confronto che Siti imbastisce è dettagliato e civilissimo, come già detto prende sul serio anche cose su cui forse non si farebbe del tutto peccato a coltivare qualche dubbio, questo però rende “Contro l’impegno” un libro piacevole in questo tempo di contrapposizioni frontali e odi efferati. Viene comunque da chiedersi se sia veramente necessario tutto quell’inchiostro per dimostrare che Saviano e la Murgia non fanno letteratura, Saviano per altro non fa mistero di sapere bene come il percorso da lui scelto sia un altro, tanto da scriverlo in uno dei suoi libri. Ci possono essere due risposte a questa domanda, la prima è che il mondo della nuova mitologia – il pop engagé – sembra ormai da qualche anno mangiarsi tutto in campo editoriale, stimolando perciò la necessità di una riflessione. L’industria ha sdoganato il midcult celebrando come grandi opere romanzi dagli stili semplici, dalle strutture basiche e con impianti moralmente lineari (i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e l’immancabile ricomposizione positiva finale), libri che raramente, per non dire mai, aprono a verità profonde e sconvenienti. Un’elevazione di grado di romanzi prima considerati dignitose opere di intrattenimento che ha rianimato il mercato dei libri “da premio”, allineando però sostanzialmente tutto verso il basso a discapito dei romanzi letterari che pure con qualche fatica anche in Italia continuano ad esistere.

Il fenomeno è storico e va di pari passo con la scomparsa della critica (oggi le recensioni le fanno soprattutto gli scrittori dicendosi a vicenda quanto sono bravi, altra cosa che non sfugge a Siti) e con la semplificazione obbligatoria in ogni comparto culturale, a partire dall’istruzione scolastica; una tendenza che risponde alle esigenze di una nuova fase della società: dalla società borghese dei giornali si è passati attraverso quella di massa (mediata dalla tv) e si è ormai stabilmente entrati in quella degli sciami digitali dove l’opinione si fa con telefoni e social network. I cittadini di quest’epoca sono produttori e consumatori di informazioni e coltivano l’illusione di muoversi indipendentemente, osservati però dalla giusta distanza mostrano i meccanismi omeostatici di un unico organismo vivente, un organismo perennemente ascoltato e organizzato dalle multinazionali del digitale. Uso metafore di carattere animale perché in un panorama di questo tipo è difficile continuare a mantenere l’aura di sacralità che l’uomo in quanto uomo ha avuto in altre epoche storiche, i concetti precedenti risultano qui operativamente superati, troppa è la misurabilità, eccessiva la predicibilità dei comportamenti. In un ecosistema di questo tipo, che premia l’identificazione, la tribalità, l’immediatezza, la rissa e il frammento, la letteratura ha poca cittadinanza.

La parte del saggio che viviseziona il pop editoriale italiano mi ha fatto però anche tornare in mente la scena di Troppi Paradisi in cui Siti confessa di non riuscire a sopportare quando Camilleri e Covatta vengono trattati come dei re al Maurizio Costanzo show. Forse sbaglio ma questa mi sembra la seconda motivazione, nascosta e più letteraria, di questa sezione di libro, la constatazione amara di una prospettiva di gloria che per il letterato appare ormai perduta. Ci sono stati tempi che ponevano sfide ben peggiori alla vita di uno scrittore, ad esempio si poteva rischiare di finire in carcere, tuttavia la prospettiva di una gloria transgenerazionale permaneva, oggi invece questa speranza appare declinante. I motivi mi sembrano almeno due: 1. Parafrasando Sciascia si possono scrivere libri per il futuro, ma bisogna vedere se il futuro avrà ancora dei lettori, in particolare se ne avrà di interessati ai libri oggetto di questa riflessione. C’è qualche ragione di dubitarne, ma staremo a vedere. 2. Siamo diventati materialisti e scientisti e della gloria da morti, la gloria cioè di cui non possiamo fare in alcun modo esperienza diretta, ci interessa poco. Ci troviamo, mi sembra, in un vicolo cieco da cui si può uscire solamente con un atto di fede nei confronti del valore della letteratura, considerandola cioè più forte, sul lungo periodo, dell’apparato ideologico-capitalistico che oggi si trova benissimo con il foraggiare il mercato di romanzi banali ma moralmente edificanti, anche se questo significa talvolta fare uso pornografico delle disgrazie altrui.

Ricordo ad esempio ancora con un certo imbarazzo uno spettacolo teatrale a cui assistetti un paio di anni fa assieme a tanti giovani progressisti e volenterosi in un bellissimo chiostro di una città d’arte del Sud: un attore milanese cinquantenne si produsse in un monologo in prima persona sulla storia di un bambino annegato al largo di Lampedusa. Durò un’ora, di cui una decina di minuti dedicati al momento in cui il bambino, perso nei marosi, smetteva infine di respirare. Il risultato fu grottesco, grottesco alla maniera della peggior pornografia (esiste anche una pornografia piuttosto gioiosa) perché con ogni evidenza non c’era quello che Nassim Taleb chiamerebbe skin in the game, la distanza era troppa e non necessariamente perché l’attore era un milanese cinquantenne (come vorrebbero i teorici del politicamente corretto nell’arte) ma perché lo stile scelto preferiva smaccatamente lo scandalismo all’empatia, la denuncia alla dimensione tragica della vicenda, indugiava nel lirismo e nel patetismo di maniera facendo di una persona un feticcio, spersonalizzava cioè un essere umano per consegnare alla platea una moneta da spendere al mercato della politica. Lo stile, come ricorda estesamente Siti, è sostanza, se si ha il tempo, la voglia e la competenza per prenderlo sul serio. Siti dedica a questa deriva pornografica-emotiva uno degli ultimi capitoli del libro, quello incentrato sull’icona pop Barbara D’Urso, una parte del libro dove si constata l’avvicinamento ormai evidente fra tv generalista e letteratura midcult.

Quello di cui Siti non parla è invece il meccanismo di istituzionalizzazione del dissenso, il fatto cioè che la sostanziale compattezza ideologica dell’industria editoriale e culturale non gli impedisca di rappresentarsi sempre come contro. Insomma la differenza la fanno gli insiemi: la tribù dei Perbene dentro la più grande tribù del Popolo Bieco e più o meno questo è quanto, un campionato a squadre chiuse, dove c’è l’Ordine da un lato e il Dissenso dall’altro e i confini del Dissenso sono perfino più rigidi di quelli dell’Ordine. Un assetto di questo genere è capace di riassorbire e marginalizzare ogni mancata ortodossia. È qui, credo, che incominciano un po’ a tremare i polsi e s’intuisce qualcosa di davvero sinistro: mentre un tempo l’artista – e lo scrittore non faceva eccezione – quando decideva di sfidare il corpo costituito della società lo faceva a suo rischio e pericolo, prefigurando talvolta con il suo lavoro l’avvento di una morale futura, oggi una determinata morale ribelle è data per costituita una volta per tutte e si è fatta industria, dunque regola, dunque sistema, e rappresenta un cammino sicuro. Lo svantaggio naturalmente è che di ribelle rimane giusto la parola.

Denunciare la discriminazione degli omosessuali negli anni sessanta aveva un costo pesantissimo sotto ogni punto di vista, oggi si paga ancora nelle periferie ma nel mondo della cultura è al contrario un buon viatico per premi e riconoscimenti. Più in generale l’impegno politico nelle forme previste è una condicio sine qua non per l’appartenenza alla buona società e gli incentivi sui grandi numeri contano, specie in un popolo abituato a fare la rivoluzione con il permesso dei carabinieri e pieno di artisti ribelli pronti a compiacersi del saluto dell’assessore alla cultura. Parliamo in fondo di un ambiente in cui da un anno tutti dicono, considerandola una cosa perfettamente normale, che il prossimo premio Strega andrà a una donna, non a questo o quel libro di una donna ma a una donna in quanto donna. Chissà, forse non andrà così, perché alla fine l’establishment letterario tende a sopravvalutare il proprio potere, non di meno è un dato inquietante. Ora, questo mi sembra un oggetto d’elezione per un possibile lavoro letterario, un settore della società, piccolo ma strategico, dove l’ideologismo ha raggiunto rapidamente vette impensabili soltanto dieci o cinque anni fa. Perché non indagare questo? Perché è scomodo e perché non è cosa da persone per bene. Al tempo stesso però mi sembra un oggetto esattamente letterario, così come sarà letterario tornare a occuparsi di minoranze quando l’ondata di destra che si profila all’orizzonte sommergerà il mondo del politicamente corretto. Il punto è che il lavoro letterario come lo descrive Siti, e su questo non posso che concordare, è necessariamente ingrato, il suo compito non è quello di costruire miti, stabilire regole di convivenza, far progredire l’uomo come collettività, quanto piuttosto permettergli di conoscersi nei suoi aspetti indicibili, nascosti, inaspettati, non necessariamente truci o malvagi, ma di certo avulsi alla logica del gruppo.

Forse diversamente da Siti credo che la letteratura di questo tipo sia sostanzialmente contro natura – coltivo un’idea scientista della natura che forse a lui non piacerebbe – perché le grandi narrazioni che dividono il mondo in buoni e cattivi sono scheletri evolutivi, mappe di significato inevitabili quanto la vista, la capacità di movimento e altri attributi fisici, e per questo motivo, per il loro innatismo cioè, vinceranno sempre. In un sistema che si efficentizza tecnologicamente vinceranno poi ancora di più. Tutti motivi per cui i tentativi di nuove genesi morali, che siano raffinatissime (Nietzsche) o a buon mercato (Murgia), sono con ogni probabilità destinate a fallire, mentre la mitologia non morirà mai, né morirà il tribalismo e tantomeno le storie o i romanzi di impianto lineare – dati per finiti mille volte ma tecnicamente immortali. La letteratura più profonda invece è sempre uno stato di eccezione, e, esattamente come la scienza ma in una direzione diversa, serve a superare per un breve illusorio momento il nostro mandato genetico pur partendo da esso (non disponiamo infatti di altre basi da cui muovere). Quando il movimento riesce si crea un qualcosa di sublime, trascendente e raro ma per definizione anche passeggero. Stupirsi un po’ che in un tempo storico come il nostro questa forma d’arte lenta, faticosa, esistenziale e preziosissima non domini le classifiche è il limite del libro di Siti, il suo pregio, invece, è chiedersi se in futuro un’attività con questi tratti continuerà a sopravvivere. La risposta non mi sembra scontata.

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La tribù online http://www.danielerielli.it/la-tribu-online/ http://www.danielerielli.it/la-tribu-online/#comments Fri, 21 Aug 2020 08:22:44 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4578 Continua a leggere]]> Questo articolo è apparso su Il Foglio il 15.08.2020

“Il Ramo d’oro” di James Frazer contiene, fra le tante, anche le vicende di un’antica tribù africana presso la quale, nel momento stesso in cui veniva nominato, il re fuggiva dal villaggio e doveva venire ricatturato da un gruppo di guerrieri e messo a forza sul trono. La scena ha un che di comico se si considera quanti sforzi sono stati fatti in ogni tempo dagli uomini proprio per salire sui troni, eppure quella fuga dal potere – che Frazer svela poi avere motivazioni piuttosto solide – ha nonostante tutto un che di credibile, di sinistramente sensato: cela l’intuizione di una verità nascosta, come spesso accade con le cose capaci di farci ridere.

Il periodo in cui ho letto per la prima volta questa piccola storia era lo stesso in cui Matteo Renzi aveva da poco perso quel referendum costituzionale che inizialmente doveva essergli era sembrato un goal a porta vuota (proporre agli italiani un taglio del numero dei parlamentari? Quale esito più scontato?) salvo poi diventare un incubo nel momento in cui lui stesso lo aveva trasformato in un test sulla sua persona. Un errore diventato il primo atto di quell’arco declinante che ha mutato il suo personaggio pubblico da uomo della provvidenza a una sorta di villain per antonomasia, quasi compiaciuto del nuovo ruolo marginale e risentito.

Eppure le colpe potrebbero – pensavo – non essere tutte di Renzi. Soprattutto, avendo scritto di lui mi era capitato di osservarlo da distanza ravvicinata e lo avevo visto letteralmente braccato dai suoi sostenitori. Un entusiasmo che sembrava a quel punto il perfetto contraltare dell’odio che era in grado di attirare nella nuova fase crepuscolare della sua carriera. Certo di uomini che promettono molto e finiscono poi schiacciati dal peso delle aspettative disattese è piena la storia della politica – non solo recente – ma mi rimaneva l’impressione che nei cicli sempre più brevi che portano i politici dai vertici all’ ignominia e all’irrilevanza, ci fosse una componente eterna – antica, primordiale – e una che invece era diretta espressione della tecnologia digitale contemporanea.

In poche parole Internet, e in particolare i social network, pur espressione della società della scienza, sono anche degli straordinari amplificatori tribali, ci riportano cioè alle origini della civiltà umana, quando per fondare le nostre comunità sacrificavamo capri espiatori, come ha sostenuto nel suo lavoro l’antropologo francese René Girard. È da questo nucleo di riflessioni che è nato Odio, da questo e dall’aver scoperto che uno dei primi finanziatori privati in Facebook è stato Peter Thiel, allievo proprio di Girard a Stanford e suo seguace convinto, tanto da aver finanziato Imitatio, una fondazione di studi a lui dedicata.

In molte interviste Thiel ha ribadito l’importanza di Girard nella sua formazione e nel libro “Zero to one” ha declinato in chiave aziendalista molte idee del suo maestro. Facebook è un’incarnazione digitale sorprendentemente precisa dei due principi cardine del pensiero di Girard: l’imitazione mimetica e il sacrificio del capro espiatorio. Imitazione mimetica significa – in soldoni – che finiamo sempre per desiderare quello che vogliono le persone che ci circondano, in particolar modo il gruppo dei nostri pari. Come ricostruisce perfettamente Luca Ricolfi ne “La società signorile di massa”, l’élite urbana sogna ad esempio un tipo di lusso studiatamente informale e attento a una costruttissima autenticità – ricerca cioè l’esperienza – la periferia è invece ancora attratta dal possesso materiale e da una ricchezza sfiorata soltanto occasionalmente.

Il punto qui comunque è che non si desidera mai nel vuoto, ma sempre all’interno del proprio contesto sociale, e, soprattutto, che visto che le risorse sono per definizione finite e distribuite in maniera diseguale questo concentrarsi dei desideri sugli stessi obbiettivi genera sempre un certo grado di tensione, di risentimento, di invidia. Nella società primordiale questo tipo di reciprocità negativa sfocia in una sorta di guerra di tutti contro tutti, un piano orizzontale risolto dal sacrificio di un capro espiatorio che pagando per i peccati di tutti permette la pacificazione della società e l’avvento di una gerarchia stabilizzante.

L’attuale ecosistema informativo digitale è orizzontale per definizione dato che tutti, ma proprio tutti, abbiamo in tasca uno smartphone connesso a internet e ricorda molto da vicino proprio lo stato di reciprocità negativa. Al di fuori della rete – nel mondo fisico – permane però intatto l’ordine dettato dalla gerarchia piramidale dall’economia reale. I due piani – quello dell’informazione e quello dell’economia – confliggono perciò in questa sorta di asimmetria fondamentale creando precisamente quella tensione pre-temporalesca che percepiamo ogni giorno, la sensazione cioè che nonostante la società sia ancora in grado di assolvere con una certa efficienza ai suoi compiti fondamentali, una deflagrazione animata da ragioni che appaiono tanto oscure quanto inesorabili ci sembri sempre più imminente.

Cliccare sull’app di Facebook sul mio telefono assomiglia ogni giorno di più all’aprire il portellone di un forno a legna avviato a pieno regime, con la differenza che mentre l’ardere dei tronchi è in grado di generare geometrie imprevedibili, eleganti, ipnotiche, l’odio tribale che brucia su Facebook è quanto di più scontato e meccanico si possa immaginare. Quand’è stata l’ultima volta che avete letto una femminista attaccare l’atteggiamento nei confronti delle donne non del fantomatico maschio bianco occidentale paternalista ma di un estremista islamico? Esatto, mai. Quante volte avete sentito un leghista lamentarsi della minaccia alla sovranità italiana rappresentata non dagli immigrati africani ma del governo cinese? Realisticamente la risposta anche in questo caso è zero. A ognuno secondo la sua bolla, ossessioni, omissioni e contraddizioni incluse, anche se talvolta verrebbe da dire soprattutto omissioni e contraddizioni perché è proprio quando si decide di chiudere gli occhi di fronte a un segnale incoerente che più di tutto si certifica la propria appartenenza al gruppo.

Personalmente abito – abbastanza involontariamente visto che raramente faccio richieste di amicizia, mi limito a rispondere a quelle che ricevo – una bolla digitale composta in larga parte da 30-40enni che fanno, o tentano di fare, professioni creative. Principalmente giornalisti, scrittori, ma non solo. Di questi, una minoranza appare effettivamente sovra-educata mentre la maggioranza sembra in possesso giusto di quella manciata di nozioni che vengono ritenute sufficienti a sentirsi intellettualmente superiori nei confronti del resto della popolazione. Complice anche la transizione dell’industria culturale all’era digitale, la stragrande maggioranza della mia bolla rilascia informazioni che la fanno pensare trasversalmente sottoccupata, il più delle volte malpagata, mediamente rancorosa.

In genere appartiene per meriti famigliari alla piccola-media borghesia e affianca a salari incerti rendite sufficienti giusto a una vita di mero galleggiamento, un’esistenza che con l’avanzare dell’età appare sempre meno adatta; vede insomma davanti a sé lo spettro del declassamento sociale ma l’idea di cambiare settore occupazionale non la sfiora neppure perché il posizionamento di immagine gli appare incommensurabilmente più prezioso di quello economico. Tanto è malleabile dal punto di vista salariale tanto è intransigente dal punto di vista ideologico: è largamente ossessionata dalla correttezza politica, monolitica sui più classici assiomi antirazzisti (ogni forma di regolamentazione dell’immigrazione è, per definizione, xenofobia), si schiera sempre e comunque dalla parte delle minoranze. Nulla nella mia bolla sembra capace di rilassare i nervi scossi quanto un post adirato contro Salvini e, ultimamente, la Meloni.

Il meccanismo è talmente automatico che si potrebbe usare uno di quei generatori automatici di titoli che proprio la mia bolla dedica a nemici storici come il giornale Libero. Intendiamoci, so bene quanto può essere rilassante questo genere di sfogo perché vi ho ceduto spesso a mia volta, è, per l’appunto, parte del fascino del capro espiatorio: esternalizzare il male che abbiamo dentro verso qualcuno che potrebbe aver fatto qualcosa per meritarselo almeno un po’. Crepe nella mia personale bolla digitale sono rappresentate da amici d’infanzia e adolescenza, ex compagni di scuola o di basket, parenti, tifosi della curva dell’hockey club Bolzano che mi seguono per via di un documentario che ho girato sulla squadra. Qui la percentuale di gente che se non lavora non mangia sale in maniera significativa e in questo segmento vanno molto più forte gli immigrati visti come problema, le teorie del complotto sul 5g e i cuccioli di tutte le razze animali addomesticate. Più di ogni altra cosa però si assiste alla pubblicazione di scampoli di vita privata, di momenti familiari, di gite e di ferie. Nessuno qui credo abbia mai sentito parlare di Calenda.

L’ossessione di ribattere a ogni affermazione di un leader politico rimane comunque molto più forte nella parte sinistra della bolla, che, per inciso, sembra contenere parecchie persone passano tutta la vita a combattere guerre online. Le possibilità che un giorno, per uno strano allineamento dei pianeti, qualcuno nell’area sinistra della mia bolla trovi non del tutto deprecabile una singola affermazione della Meloni appare anche in questo caso uguale a zero, il che statisticamente è significativo della scarsa onestà intellettuale impiegata nel giudizio perché un paio di volte al giorno anche un orologio rotto segna l’ora giusta. Non ho dubbi che lo stesso valga in altre bolle a me precluse per un’affermazione qualsiasi della Boldrini.

Quello che sto dicendo è che sui social il dialogo è un’illusione, quello che facciamo è: 1. Segnalare le cose bellissime che riempiono la nostra vita (imitazione mimetica) 2. Prendercela con qualcuno a partito preso per sentirci meglio (sacrificio del capro espiatorio). E lo facciamo a partito preso anche quando nel merito potremmo avere dalla nostra qualche ragione, non è questo però che ci muove: quello che ci mette in azione in questo tipo di piattaforma digitale è ribadire l’appartenenza alla nostra tribù, quella dell’Italia che si sente migliore oppure quella dell’Italia che si sente dimenticata. Il meccanismo è tribale, il dibattito non esiste, è una messa in scena.

L’aspetto grottesco delle echo-chamber politiche è esattamente questo: milioni di persone si affannano a esprimere i loro pareri politici ma non fanno altro che farsi la conta dei like a vicenda mentre predicano ai convertiti. Al di fuori di chi è già d’accordo non c’è infatti nessuno ad ascoltare. Una parte del Paese pensa che l’altra viva in una specie di medioevo e l’altra pensa che la prima abbia perso del tutto il contatto con la realtà e sia intossicata dall’ideologia. Le due parti non si parlano, si disprezzano. Ognuna delle due parti deve sfogare su qualche capro espiatorio la tensione che si genera all’interno di quelle camere stagne dove nessuna voce suona bene quanto la propria.

Non vorrei dare però l’impressione di ritenere che le piattaforme abbiano generato in noi qualcosa che prima non c’era: non è così. La tribalità è sempre esistita, ed è sempre stata una forza fondamentale. Forse il motivo per cui parlo in maniera smaliziata della mia bolla è proprio perché mi ci trovo dentro in larga parte involontariamente, sarebbe per me molto più difficile farlo se mi ci riconoscessi in maniera totale e identitaria, sarebbe come l’acqua per il pesce nella nota storiella di Foster Wallace.

Quello però che i social stanno facendo è prendere una delle caratteristiche dell’essere umano e farne l’unico metro – assoluto – dell’esistenza. Attraverso la continua ottimizzazione degli algoritmi hanno creato un ambiente volto a farci spendere più tempo possibile online, in modo che possa venire somministrata la maggior quantità possibile di pubblicità. L’analisi dei dati ha dimostrato nel tempo che il modo migliore di riuscirci era riportarci, per quanto solo virtualmente, al nostro stato pre-civile. In sostanza, l’Occidente si sta imbarbarendo e polarizzando all’interno di camere di autoreferenzialità dove il logos lascia spazio alla tribalizzazione perché in Silicon Valley possano continuare a fatturare.

È questo l’odio che dagli schermi tracima nelle nostre vite in quantità che sembravamo aver dimenticato, un fenomeno molto più ampio e radicale di questo o quel presunto hate speech, è l’aria che ci circonda, è lo spirito del nostro tempo: lo spirito antico della tribù.

 

ODIO è su:

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Non censuriamo la battaglia. http://www.danielerielli.it/non-censuriamo-la-battaglia/ http://www.danielerielli.it/non-censuriamo-la-battaglia/#comments Mon, 19 Oct 2020 16:41:58 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4662 Continua a leggere]]> Pubblicato su Domani il 19.10.20.

DELLA BATTAGLIA

Nel numero in costante aumento di modi di dire che alcuni vorrebbero bandire per sempre, uno colpisce in maniera particolare. Si tratta dell’espressione – principalmente giornalistica, ma talvolta usata nel linguaggio comune – secondo la quale una persona muore “in seguito a una battaglia” o “dopo aver perso una battaglia” contro una malattia.

Questo ennesimo tentativo di polizia del linguaggio è più importante di altri per almeno due motivi. Il primo è che riguarda chi ha sofferto fino a perdere la vita, lasciandosi il più delle volte alle spalle persone addolorate e decise a difendere la memoria del defunto, perciò il solo discuterne richiede rispetto, una certa dose di cautela e di empatia; il secondo è che il fatto stesso che esista una discussione del genere è emblematico di un cambio netto nelle idee oggi più diffuse attorno alla condizione umana.

COLPEVOLIZZAZIONE

Secondo i suoi detrattori un’espressione come “perdere la battaglia con una malattia” sarebbe offensiva perché andrebbe a infierire sulla vittima, colpevolizzandola. S’insinuerebbe insomma l’idea che nel momento in cui si perde una battaglia questo accada inevitabilmente perché non ci si è impegnati abbastanza. Una convinzione del genere implica a sua volta l’idea che l’uomo abbia la possibilità di controllare ogni aspetto della sua esistenza, oltretutto per un periodo indeterminato – potenzialmente infinito – di tempo e che superare ogni problema sia in ultima analisi sempre una questione di volontà di potenza. Una posizione tanto assurda da risultare per l’appunto estremamente significativa e meritevole di una riflessione.

In un certo senso è come se anni di telefilm di scarsa fattura che ripetevano “Sii te stesso e potrai fare qualsiasi cosa” e di pubblicità ispirazionali (dal Just do it della Nike in giù) si fossero fusi con le tante altre nervature ugualmente irrealistiche dello Zeitgeist per trasformarsi gradualmente in un substrato condiviso patologicamente negazionista, non solo rispetto alla natura della vita umana, ma anche, più modestamente, nei confronti del concetto di battaglia.

L’ESSENZA DELLA VITA

Chiunque affronti davvero una battaglia, sia essa contro una malattia, per imparare qualcosa, per riuscire in un lavoro o contro un’altra squadra in uno sport, sa che non esistono ricette sicure per la vittoria e capiterà prima o poi che anche la battaglia affrontata con il massimo dell’impegno, del talento e della tattica si risolva comunque in una sconfitta. È questa la natura della battaglia, giacché la battaglia che si può vincere con assoluta certezza non è tale. Una parte fondamentale dell’età adulta risiede proprio in quello spazio scomodissimo in cui in seguito a una dura sconfitta ci s’interroga sulla adeguatezza delle proprie azioni: il fardello dell’adulto è cioè quello di non poter mai sapere davvero se si è fatto tutto il possibile e ci si è arresi al destino oppure se qualcosa poteva essere fatto meglio conducendo così a esiti migliori. Da bambini seguiamo le indicazioni dei nostri genitori, da adulti tocca a noi l’onere dell’analisi, così come tocca sempre a noi quello, ancora più pesante, del decidere se prendere per buone le conclusioni a cui siamo giunti. Quel che è peggio, il tempo procede su un piano unico e irripetibile, non ci offre mai una seconda possibilità per risolvere lo stesso problema, ci fa semmai dono di un’esperienza che potremmo utilizzare per provare a risolvere i problemi futuri. Questo processo di valutazione, ripensamento e formulazione di nuovi tentativi per interpretare e capire il mondo è la forma più ampia e onnicomprensiva della battaglia, è l’attività principale di una vita.

La battaglia è sempre un campo di possibilità aperte, la vita un tentativo di attraversarlo indenni, il risultato non è mai garantito. Sapere tutto questo equivale a conoscere una delle regole fondamentali dello stare al mondo: chi l’interiorizza può stimare i vittoriosi ma rispetterà sempre i perdenti, soprattutto saprà che prima o poi finirà per provare entrambi i sapori e potrà al massimo ambire ad agire sulle dosi attraverso l’intelligenza, il lavoro e l’impegno. Senza per questo smettere mai di confidare nella fortuna. (Continua a leggere su DOMANI)

Illustrazione Doriano Strologo

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L’età del tribalismo (intervista a Minima & Moralia) http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/ http://www.danielerielli.it/leta-del-tribalismo-intervista-a-minima-moralia/#comments Thu, 10 Sep 2020 08:05:08 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4601 Continua a leggere]]> Di Nicola Pedrazzi

Intervista apparsa su Minima & Moralia il 24/07/2020

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odioappena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio. Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

Prima ancora del senso di rivalsa in De Sanctis è centrale la volontà di trovare un posto nel mondo, cercare cioè una forma di felicità all’interno della società della sua epoca, un’eudemonia aristotelica, una teoria della felicità che prevede per un uomo propriamente detto la ricerca di un equilibro della virtù in mezzo agli altri uomini, non in cima a montagna. In questo senso è significativo quanto conti per la sua formazione un personaggio apparentemente minore come Falzone, il funzionario di Invitalia,  in particolar modo quando gli propone questa citazione di Edgardo Bartoli: «Rifiutare la propria epoca è altrettanto impossibile quanto rifiutare la propria nascita e la propria morte». Non è quindi un romanzo all’insegna della fuga della società, l’abbondono della città, il rifiuto in blocco di un consesso sociale percepito come ormai invivibile o irrimediabilmente ingiusto. In parte capisco un sentimento di questo tipo, il nostro è contemporaneamente un tempo storico comodissimo e assediato ma come autore sono più attratto dall’analisi del presente, dalle sue connessioni con il passato eterno dell’essere umano, mi sembra che nella nostra epoca ci sia davvero moltissimo su cui lavorare. De Sanctis quando accetta di uscire dalla sua bolla di speculazione autoreferenziale, dal moto in cerchi concentrici a cui si stanno riducendo le discipline umanistiche e accetta di provare ad applicare la sua intelligenza al mondo, va dalla teoria alla pratica e gli si aprono molte possibilità: è tutto parecchio faticoso ma per certi versi anche inaspettato e stimolante. De Sanctis quindi accetta la sfida del suo tempo – per quanto possa sembrargli impegnativa – e gli esiti, o meglio il suo personale esito, sono il contenuto del romanzo.

La scelta di ripartire da uno dei protagonisti del primo romanzo è funzionale alla credibilità della scalata da vittima a governante della mutazione tecnologica, ma ti ha anche obbligato a un lavoro complesso, di ripresa, collegamento ed evoluzione di un personaggio che avevamo lasciato in Salento a farsi i cannoni in tenda, e che diviene un manager milionario credibile, pur conservando in sé tutti i segni e le passioni della sua giovinezza. Insomma, come escamotage narrativo non è stata una scelta economica. Il che mi fa pensare che tieni molto a Marco De Sanctis, o alla parentela tra i tuoi due romanzi, seppur diversi. È così? Hai mai pensato di poter raccontare la stessa storia senza di lui?

Sì, ci avevo pensato, non a caso ancora adesso il romanzo si può comunque leggere senza aver letto Lascia stare la gallina e non si perde nulla. È del tutto autonomo. All’inizio avevo anche scritto un’ottantina di pagine della stessa storia ma sulla pelle di un altro personaggio, non un borghese in divenire ma un borghese pienamente compiuto, esponente di una solida realtà intergenerazionale. Avevo fatto ricerche in quella direzione e altre avevo in programma di farne. Avevo usato anche una lingua diversa, più semplice, standardizzata e basica, zero mimetismo, un solo livello di lettura oltre ad un’edulcorazione pressoché totale della sessualità, poi ho buttato tutto. Era profondamente inautentico.

Stavo spendendo un’idea forte in una maniera mediata pensando non alla potenza del romanzo ma a un certo standard di settore. Sono ripartito alla ricerca del personaggio e mi sono reso conto che ce lo avevo già in casa, ci sono alcune caratteristiche che doveva avere, per motivi che non posso svelare troppo ma, insomma, Marco De Sanctis era perfetto, a partire dalla sua storia passata di errore giudiziario.

A un certo punto Marco descrive la professione dello scrittore con la frase «osservo, il lavoro dello scrittore è soprattutto osservativo». Si condensa qui una delle tue tensioni preferite, quella tra mentalità scientifica (che il Marco manager di Before ha acquisito con abnegazione) e mentalità narrante (che Marco possiede in quanto scrittore anch’egli, tanto che tutto il romanzo è steso da lui ex post). Cito da una tua intervista di quattro anni fa, proprio qui su M&M: «Molta della cupezza che percepiamo nei nostri tempi deriva proprio da questa inadeguatezza della mente narrante a cogliere la complessità aperta e irriducibile del mondo globale, […] la realtà globale è sempre più complessa e variegata e le narrazioni politiche e mediatiche si dimostrano sempre più incapaci di rapportarsi in maniera efficiente a questa complessità». Diciamo che il De Sanctis di Odio arriva a possedere entrambe le menti, del racconta storie e del freddo analista.

Quella frase sul lavoro osservativo è detta in una scena con una venatura comica – lui e un suo amico si sono scambiati identità per conquistare delle ragazze, quindi c’è anche una certa ironia amicale nella definizione. Detto questo per me era importante nell’impianto del romanzo riconoscere la centralità culturale delle scoperte scientifiche e di conseguenza della tecnologia nel nostro mondo, perché contribuiscono ormai da lungo tempo a definire il modo in cui viviamo, pensiamo, ci aggreghiamo, amiamo, odiamo. Mi sembra impossibile raccontare il presente senza integrare questi aspetti nella storia. Riguardo quella mia vecchia dichiarazione: sono ancora convinto che esista questo iato incolmabile fra storie e realtà però al tempo stesso ora mi è più chiaro come le storie debbano necessariamente avere anche una funzione sintetica, sono mappe, non sono il territorio.

Il problema quindi non è tanto, o non soltanto, nei limiti strutturali delle storie, ma più che altro nella funzione delle storie nell’ecosistema informativo contemporaneo ovvero in come l’architettura di quest’ultimo definisca in maniera quasi invisibile le modalità di sintesi, in sostanza come il medium sia il messaggio. Sentenza di McLuhan che è sempre vera, ma oggi, con l’ubiquità di internet e un accesso pressoché universale al medium ancora più vera di prima. Queste modalità di sintesi sono all’origine dei nostri sentimenti morali, perché Bene e Male poggiano su degli apriori biologici ma si strutturano davvero in noi solo attraverso le storie.  In un certo senso quindi la mia ricerca su questo tema è andata un po’ più a fondo, ho scavato ancora.

Credo che la fascinazione di Marco per la tecnologia derivi anche dalla capacità della scienza di fornire risposte più solide di quelle delle discipline umanistiche in cui si è formato. Su questo punto si sviluppa una delle «riflessioni maggiori» del romanzo, penso in particolare ai pensieri che Marco mette a punto nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna.

Assolutamente. Nella riflessione sull’arte moderna che De Sanctis fa al cospetto del Compianto del Cristo morto di Niccolò dell’Arca c’è proprio la denuncia delle discipline che sembrano conformarsi totalmente all’idea che non esistano più dei canoni né una possibile ermeneutica dell’opera d’arte, ma soltanto un gioco di potere attorno alla sua accettazione o al suo rifiuto. Si tratta di una visione frutto di quel post modernismo che si sta diffondendo come un virus mortale all’interno della cultura Occidentale. L’idea di base di questa corrente culturale è che ogni forma di gerarchia sia per definizione oppressione, e che ogni individuo non sia un essere umano con la sua profondità, la sua variabilità, le sue paure, le sue speranze, la sua dose di problemi, il suo destino tragico, bensì l’impersonale predeterminato membro di un gruppo che lo definisce in toto.

Quindi non Marco ma «maschio bianco» e come tale costitutivamente, moralmente e qualitativamente diverso da, dico per dire, una «donna nera». In altri termini una visione del mondo al tempo stesso razzista e sessista, il contrario di quell’ethos democratico che prevede l’uguaglianza formale di fronte alla legge senza discriminazioni di sorta. Approcci di questo tipo prendono una parte per il tutto. Le gerarchie, oltre ad essere un elemento ineliminabile di ogni organizzazione umana, si reggono sì sul potere ma anche su altri valori, come ad esempio la competenza, l’affidabilità, la responsabilità eccetera e sono la base di ogni ordine sociale, è come si costruiscono e come si declinano che fa la differenza fra una società e un’altra, ma una società umana senza gerarchie è sempre e comunque un ossimoro. Più importante ancora: le ingiustizie non si combattono con altre ingiustizie, né le discriminazioni con discriminazioni “compensative”, bensì ribadendo e implementando con maggiore efficacia l’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, di fronte alla legge, il che si ottiene anche cercando di dare a tutti possibilità di partenza simili, non certo gli stessi risultati finali. È questo il principio da rinforzare, non una nuova forma di discriminazione o di sessismo «alla rovescia», che finisce per alimentare il tribalismo riportandoci a una situazione pre-patto sociale di guerra di tutti contro tutti e che è in realtà l’esatto contrario del progressismo, anche se si appropria impunemente del nome. L’errore di base è nel considerare la vittima come dotata di capacità ultraterrene – pensare cioè che sia sempre e comunque migliore degli altri esseri umani –, un atteggiamento che poi è precisamente il residuo di quella divinizzazione del capro espiatorio di cui parlava Girard.

In realtà quello che serve è una nuova fondazione, non una vendetta, altrimenti il circolo vizioso non si spezzerà mai. Essendo un italiano cresciuto in Alto Adige ho avuto la sfortuna di vedere sin da bambino come qualsiasi discriminazione «positiva» o «compensativa» nel tempo diventi discriminazione e basta, un’esperienza in cui ho parlato nell’ultimo brano del mio libro Storie dal mondo nuovo.

Ricordo il capitolo, fece discutere. Spiegami meglio cosa intendi per «discriminazione positiva».

Se vuoi ti racconto un aneddoto fresco fresco, che ho saputo proprio oggi da un mio amico di infanzia di Bolzano: le poste in Alto Adige sono sottoposte alla proporzionale etnica dei posti di lavoro, solo che pochissime persone di lingua tedesca vogliono fare i postini – di solito evitano gli impieghi pubblici dato che hanno alternative meglio remunerate, in genere nel turismo e nell’agricoltura sovvenzionata – quindi pur di far arrivare le lettere i posti vengono dati agli italiani che però essendo appunto italiani presi a copertura di posti tedeschi non possono essere assunti a tempo indeterminato – come si farebbe se fossero tedeschi – ma solo con contratti di un anno non rinnovabili. Quindi il mio amico che da quasi un anno porta in giro lettere al posto di un tedesco che fa altro ora perderà il lavoro e sarà sostituito da un altro italiano che fra un anno perderà il lavoro a sua volta. Questo è il genere di discriminazione assurda che si crea quando incominci a ragionare per tribù e a mettere le appartenenze ai vari gruppi sopra le persone, l’Alto Adige è una miniera infinita di follie del genere – tutte nella stessa direzione –, ma quando cresci in un luogo con questo grado di razzismo organizzato, scientifico e accettato e poi vedi che tutto quello che la sinistra nazionale riesce a fare, invece che difendere i diritti delle persone indipendentemente dalla lingua che parlano, è usare “Suditirolo” al posto di Alto Adige e sentirsi così alla moda e illuminata mentre sostiene le stesse persone che applicano politiche razziste come queste, incominci a farti delle domande su questo tipo di meccanismi mistificatori, cioè su come si riesca a girare l’assurdo in accettabile e su come alla fine ad ogni tribù interessino solo i misfatti che rientrano nel suo cono ideologico, per cui se è fuori dal paradigma che un italiano subisca del razzismo in Italia quella cosa smette di esistere, di essere percepita, rimane nelle tenebre perché è un segnale non coerente con il resto della narrazione.

Questo significa ad esempio che riguardo all’Alto Adige il fascismo anche se è iniziato 100 anni fa ed è finito da 80 è sempre di grandissima attualità perché è coerente con la narrazione della minoranza vittima, mentre le discriminazioni anti italiani del presente passano sotto silenzio perché non sono coerenti con la narrazione, sono reali ma per essere capite obbligano ad un pensiero complesso e non bianco/nero. E non è solo una questione dell’Alto Adige ovviamente, il nostro ecosistema informativo rafforza sempre di più questo genere di bias di conferma su tutti i temi:, i segnali coerenti vengono amplificati, quelli non coerenti cancellati. Il risultato è una massiccia polarizzazione e un conformismo opprimenti, a destra come a sinistra. Ogni tribù pensa solo a sé stessa e a confermare le sue tesi, manca sempre di più un consenso su principi universali da applicare trasversalmente, i principi razionali tipicamente occidentali su cui fondare una convivenza basata sulla pluralità di opinioni si dissolvono dentro questa follia arcaica che è l’identity politics e il suo ricatto morale: o stai con noi, ciecamente e sempre, o non sei propriamente umano, sei un incivile. Il merito della questione non conta nulla. Questa ossessione per il controllo ideologico del linguaggio appaiato a una sostanziale indifferenza per i destini concreti delle persone è altrettanto al centro del nostro tempo: la facciata ideologica al posto della realtà, in ultima analisi fa sempre parte di quella lotta di potere amorale a cui, secondo il post modernismo, non esiste alternativa.

Per questo il linguaggio diventa un territorio di una guerra molto dura: quando la lingua si ideologizza la sua scarsa capacità di descrivere il mondo è sempre sul punto di essere scoperta, per evitarlo si mobilita la militanza digitale e si chiedono censure a ogni occasione utile.

Molto interessante. Ne approfitto per insistere sul postmodernismo: Marco ne è figlio, e anche per questo reagisce abbracciando le ragioni della scienza. Secondo te in che relazioni sono post-modernismo e tecnologia?

Stiamo parlando di una corrente culturale per la quale l’illuminismo non è un approccio conoscitivo alla realtà che ha dato frutti senza precedenti e può essere preso e replicato, con enormi benefici, da qualsiasi cultura, etnia, o nazionalità umana, ma, piuttosto, una forma di conoscenza oppressiva tipica della cultura bianca patriarcale. Insomma è qualcosa di apertamente oscurantista, non a caso uno dei suoi nemici di elezione è la scienza, perché, tanto per fare un esempio, la luce va sempre alla stessa velocità, che il calcolo lo faccia un bianco, un nero, una donna o un transessuale – per inciso questa sua universalità è una delle sue caratteristiche più belle – e questo per i postmodernisti è inaccettabile perché per loro ogni cosa è il frutto di una violenta sopraffazione sociale, anche la misurazione dei fenomeni naturali.

Poi naturalmente passano le loro giornate a fare tweet o post sui social con i telefoni o i computer, tutte cose che non potrebbero mai esistere senza la cosiddetta «scienza bianca patriarcale».

Però De Sanctis, e in generale tutto il romanzo, mi pare attraversato da una tensione dolorosa al trovare un senso. La critica al post-modernismo, certo, ma il problema appare di portata molto più ampia.

Questo è un punto fondamentale, il post modernismo è la ricetta perfetta per il caos, ma rimane comunque il fatto che fondare qualcosa di solido in campo umanistico è un compito estremamente, estremamente, difficile. Inoltre la nostra è una società che garantisce un’abbondanza di materiale senza precedenti ma fatica a dare senso alla vita delle persone. Dal punto di vista epistemologico non ci sono insomma grossi dubbi su chi fra scienza e umanesimo sia in possesso di una maggiore approssimazione alla verità – la realtà è lì a dimostrarlo –, tuttavia l’uomo è un animale tribale, rituale, attratto dal simbolismo e dal pensiero magico. Tutte cose con cui la scienza non è in grado di dialogare perché dal suo punto di vista non hanno senso, e possiamo anche accettare che la scienza abbia ragione, ma rimane il fatto che ci siamo evoluti in questa direzione e in qualche modo  dobbiamo farci i conti. In più la tecnologia punta soltanto al suo aumento indefinito e lascia inesplorato il regno degli scopi, così come quello della morale, dell’estetica e di molte di quelle cose per cui vale in fondo la pena di vivere.

Qui per me emerge la centralità fondativa delle storie, in particolare la letteratura rimane un metodo di conoscenza della realtà molto efficace proprio perché aiuta a penetrare negli spazi lasciati vuoti  dalla scienza. Attraverso le biografie, l’aneddotica, gli archetipi o la forza della lingua, la letteratura stimola l’intuizione, l’analogia, e finisce per evidenziare delle assonanze potenzialmente illuminanti fra vita reale e vita immaginaria. La letteratura è una pluralità aperta di discorsi tenuta insieme da un’arte capace di parlare anche alla nostra parte non razionale. È questo che la rende preziosissima.

Anche al di fuori della letteratura trovo parecchio rilevante la tensione tra realtà e racconto. La sensazione, terribile, del nostro presente soprattutto italiano è di discutere, dividerci e pensare lontano dalle faglie della realtà e quindi dalle nostre esigenze, financo dai nostri interessi. Trump siede alla Casa Bianca e noi coloriamo statue, piattaforme-super-editore mietono introiti indifferenti ai contenuti di Salvini o Greta Thunberg e noi facciamo l’esegesi politica delle piazze delle Sardine, Zuckerbeg interviene al Parlamento europeo (difficile ipotizzare che si sarebbe mai sentito in dovere di riferire alla nostra Camera o a qualsiasi demos nazionale su Cambridge Analytica) ma nessun media, nessuna maratona Mentana si dedica all’argomento, in quel periodo facevamo i collegamenti con Di Battista dalle fattorie del Sud America (e il Parlamento europeo a cosa serve? Lo sai quanto ci costa? Ha pure due sedi, aboliamole!).

Il fatto di impiegare risorse narrative così sideralmente lontane dai nostri interessi in campo secondo me ha a che vedere con la decadenza morale e funzionale della politica, con la diffusione del complottismo, con la fragilità delle nostre istituzioni democratiche. In questo senso Odio è anche un romanzo-monito, la dimensione politica di questi problemi è al centro della tua attività intellettuale, di ricerca e scrittura. Mi sbaglio?

Se ho capito bene la domanda la tensione a cui ti riferisci è fra l’abbandonarsi alle forme del dibattito incentivate dalle piattaforme tecnologiche o rischiare l’assoluta irrilevanza.

L’hai capita bene, grazie della sintesi!

Il problema è che le forme che le piattaforme incentivano – perché massimizzano il tempo passato online e quindi gli introiti pubblicitari – sono tutt’altro che neutre e ci stanno polarizzando sempre di più fra estremismo e moralismo, allontanandoci dall’empatia e dall’istinto al metterci per un momento nei panni degli altri. Non credo che prima dei social network una sciocchezza intellettuale come quella di giudicare dei personaggi storici secondo i canoni morali del presente sarebbe uscita da qualche circoletto di estremisti. Certo, la storia l’hanno sempre scritta i vincitori ma il meccanismo per cui delle minoranze rumorose riescono ad imporsi con la violenza digitale sulle maggioranze è un fenomeno peculiare del nostro tempo. È preoccupante perché distorce dei sentimenti morali preziosi, come ad esempio l’antirazzismo, piegandoli ad agende di sopraffazione, trascinando il discorso verso il vortice oscuro della gara a chi è più puro, che è sempre l’inizio di tragedie immani.

Il sogno intellettuale nascosto in questi piccoli prevaricatori è quello di raggiungere il potere assoluto e arbitrario del sacerdote pagano (o del funzionario del partito totalitario) e quindi i lumi sono il nemico numero uno. Se infatti non c’è niente di condiviso né nulla di sensato nel presente, allora non c’è limite all’arbitrarietà del futuro potere rivoluzionario. Ma chi vede soltanto potere in ogni cosa non può che essere il primo a essere ossessionato da esso, è una meccanica psicologica che nel romanzo trovi declinata sul tema del Capro espiatorio: Marco passa da piccolo costruttore di capri espiatori fino a capire il funzionamento del processo del meccanismo sacrificale su una scala molto più ampia.  Quando un tema ci attrae tanto è perché ne abbiamo dentro almeno una parte, niente come la letteratura insegna questa lezione.

Tutto questo ci porta anche al giornalismo, professione che hai praticato e pratichi, che è indissolubilmente legata all’esigenza del narrare e verso la quale sei estremamente critico. Marco è una vittima della mancanza di deontologia giornalistica, così come Ottaviano, integerrimo giornalista di Lascia stare la gallina, è vittima del suo zelo professionale, paga con la vita il fatto di non essere un cialtrone totale. Il mondo politico-editoriale essenzialmente romano in cui i protagonisti di Odio si muovono sull’orlo dalla distopia che avanza è imperdonabile… O è un’attribuzione di responsabilità mia personale?

Dunque, prima di tutto questo è un romanzo, non è un saggio, questo non andrebbe dimenticato. Marco, come tu stesso hai detto, è uno che ha visto la sua faccia pubblicata senza alcun tipo di riguardo su tutti i giornali assieme ad un’accusa di omicidio, come per altro accade abitualmente in Italia, è normale che ora  non veda la categoria di buon occhio. Di più: la sua possibilità di compiere una scalata sociale non dipende solo dalle sue abilità ma anche dal risarcimento che ottiene per la pubblicazione indebita di alcune sue immagini, quindi il tema per lui è fondante, rientra nel ciclo torto-risentimento-vendetta, il suo odio per la stampa non è un vezzo dell’autore, è un pilastro centrale della sua vicenda umana. Allo stesso modo Ottaviano, in Lascia stare la gallina, è un’idealista in maniera quasi comica, non lo confonderei con un mancato premio Pulitzer, è un ragazzo nella più tipica delle fasi iniziali della professione, in cui si pensa inevitabilmente che ogni storia che capiti fra le proprie mani sia la più importante e quella in grado di cambiare il mondo.

È simpatico e si finisce per volergli bene, sul fatto che non sia un po’ un cialtrone a sua volta non ci metterei però la mano sul fuoco. Detto questo la mia idea personale sul giornalismo in Italia è che sia fatto in larga maggioranza da organizzazioni che hanno raggiunto un elevato grado di senescenza interna e che per una serie di motivi, burocratici, legislativi e di opportunità politica, non riescano a rinnovarsi. Ripensare il prodotto per sopravvivere in un’epoca che comunque è oggettivamente molto, molto difficile si è dimostrato un obiettivo al di là delle loro capacità organizzative. Spesso si dice che in Italia il problema sia l’inesistenza di editori puri e può darsi che sia così, può darsi pure che contino, in negativo, quei tratti retorici della nostra cultura nazionale, perché quando hai una diffusa antipatia nei confronti dei fatti e uno spiccato senso di appartenenza ad una fazione è difficile fare buon giornalismo, il problema principale però credo rimanga proprio quello della senescenza delle organizzazioni. Le aziende sono un po’ come le persone, prima o poi perdono spinta interna, si adagiano, indugiano per abitudine e pigrizia in processi ormai superati dal tempo finché non muoiono.

Questo è quello che credo stia succedendo: i giornali si assottigliano, perdono valore e diventano oggetto di shopping a basso prezzo per chi vuole avere un presidio politico; quanto possa durare una situazione del genere non saprei dirtelo. Rispetto al libro questo è un tema rilevante soprattutto per contrasto, nel senso che il mio interesse è rivolto ormai molto più verso le organizzazioni in fase ascendente, ancora in grado di liberare la creatività, di premiare il merito, di ripensare i processi, un interesse che sta alla base della costruzione del personaggio di Marco De Sanctis.

Proseguo un attimo sul filo della responsabilità, perché la seconda riflessione filosofica del romanzo è sul libero arbitrio. Il tema innerva tutta la vicenda, ma è affrontato esplicitamente durante il dialogo che Marco ha con l’amico Emanuele (lo studioso che gli farà conoscere il pensiero girardiano) mentre lo accompagna in macchina a riconquistare Sara, la seconda delle sue donne. Marco stima la ragazza, la compatisce per l’essersi innamorata di Emanuele, e tira in ballo la sua libertà di scelta: non vuole stare più con te, lasciala in pace.

Funzionale alla giustificazione di un misfatto privato, ma la risposta di Emanuele, che è filosofo, è programmatica: il libro arbitrio è una «sciocchezza da americani», un «modello astratto non più compatibile con lo stato attuale delle nostre conoscenze». Insomma per Emanuele nulla è morale, non esistono nemmeno i presupposti per l’immoralità: «La coscienza di una decisione è una finzione narrativa che interviene dopo averla presa». Infastidito da questo determinismo (che gli algoritmi che lo stanno rendendo ricco parimenti gli suggeriscono), Marco testa il suo libero arbitrio fingendo di sterzare con l’auto verso il guardrail. Il siparietto si chiude con Emanuele che lo prega di «non prendere la filosofia troppo sul serio». Cazzeggiando, ma siamo al centro del romanzo…

Siamo sicuramente in uno dei punti in cui emerge lo scontro fra l’ambizione dell’umanista – ma anche dell’uomo tout court – di essere centro e metro ultimo del mondo e l’avanzare della scienza e della tecnologie con le loro sentenze, talvolta sgradevoli per il nostro ego. È vero che – contrariamente alla credenza popolare – la scienza non è latrice di verità immutabili ma di certo è in grado di fornirci delle approssimazioni migliori rispetto a quelle che potremmo ottenere solo grazie alla contemplazione o al dibattito. L’onere della prova fa tutta la differenza del mondo, e la fa a favore della scienza.

Ora, quello che la scienza ci sta dicendo con sempre maggiore insistenza è che molte delle categorie del dibattito umanistico potrebbero in fondo non essere per nulla a fuoco, lo stesso concetto di libero arbitrio potrebbe essere poco più che una finizione narrativa. Capisci bene che si tratta di un’affermazione pesantissima. C’è molto del libro in questo corto circuito, nell’importanza cioè che le storie ricoprono nella nostra vita e nella costruzione delle nostre società, e nel fatto che un giorno l’hard problem della coscienza potrebbe risolversi con la rivelazione definitiva che non esiste nulla come una “scelta”, se non altro non nei termini in cui l’abbiamo sempre pensata. Certo non credo che a quel punto ci rimarrebbero altre reali possibilità se non comportarci come se non avessimo mai ricevuto una notizia del genere e continuare a raccontarci storie dove siamo al centro del mondo e prendiamo tutte le decisioni più importanti da un generatore di senso nascosto da qualche parte dentro di noi.

Ho un po’ di angoscia, io e la mia coscienza ci allontaniamo volentieri da questa discussione… E ti portiamo invece sulla relazione tra esperienza e letteratura. Roma – Bologna – Berlino è l’asse spaziale di Odio. Si tratta di tre città che conosci molto bene, ci hai vissuto e si vede. L’aver toccato con mano spesso conferisce alle tue descrizioni una vitalità «animale», penso a certe descrizioni culinarie, che mi hanno fatto venire davvero fame, o alla straordinaria sequenza al Carrefour, su cui torniamo.

Non ti chiedo quanto conti la realtà vissuta nell’elaborazione della fiction (cose del tipo: esiste davvero quel supermercato?), perché do per scontato che pesi, ti chiedo piuttosto quali misure prendi per tenere a bada l’esperienza personale e far vincere la letteratura. Le diversità sono innumerevoli, ma se dovessi dire un punto su cui Odio è tecnicamente «superiore», diciamo più maturo della Gallina, indicherei la lingua; i personaggi narranti della Gallina, per quanto plurimi, erano tutti più vicini alla lingua dell’autore, che in Odio ha fatto un passo indietro, la tentazione di cercarti in Marco passa molto presto anche a chi ti conosce. Insomma, tra i due romanzi hai costruito continuità ma io vedo anche rottura. Come si lavora sulla propria scrittura?

Il supermercato esiste, nei primi tempi che ho passato a Roma, ormai quasi quattro anni fa, vivevo in una casa che mi aveva prestato un amico lì vicino, alla volte scoprivo alle undici di sera di avere il frigo vuoto e andavo in scooter a comprare qualcosa, ricordo quel posto con grandissimo affetto, è stato il primo luogo di Roma a cui mi sono affezionato, aveva veramente qualcosa di mistico, una pace assoluta, tutta quell’abbondanza silenziosa, la sensazione di essere eccezionalmente vicini al centro simbolico del nostro mondo. Pensa al grado di cooperazione fra esseri umani che è necessario per portare una tagliata di manzo argentina in un supermercato di Roma ad un prezzo tutto sommato contenuto, è una cosa quasi inspiegabile, la dice veramente lunga su chi siamo come specie.

Per me questi sono fenomeni molto più interessanti del sentire qualcuno urlare al megafono come andrebbe governato il mondo secondo lui. Per quanto riguarda la lingua considera una cosa: questo è un romanzo di ambientazione borghese, mentre Lascia stare la gallina è un romanzo di ambientazione popolare, la differenza – considerato il tentativo di mimetismo della mia lingua – è dirimente. Poi sono d’accordo che non sia solo questo, anche a me pare più matura questa lingua, ma mi sembra per certi versi inevitabile, nel tempo scrivendo e leggendo si acquisisce una sensibilità diversa, quando ti trovi di fronte alla pagina diventa diverso quello che cerchi prima di tutto a livello istintivo e poi anche a livello, più mediato, di revisione. Il discorso sulla lingua si articola su moltissimi piani, quello del ritmo – per me importantissimo – quello del mimetismo, particolarmente sfidante in questo caso perché i contesti nel romanzo sono fra di loro molto diversi, così come molti sono i temi che emergono dietro la vite dei protagonisti. Infine non metterei Berlino sullo stesso piano di Roma e Bologna nel romanzo, queste ultime due sono molto più importanti, i due episodi a Berlino sono poco più di una cartina tornasole sul cambiamento di DeSa, un cambiamento che si svolge però tutto in Italia.

La mia scena preferita è proprio quella al Carrefour di via delle Fornaci, ora che so che esiste diverrà meta di pellegrinaggio. Marco ci invita Federica e la incanta con la competenza delle migliori guide turistiche: al posto degli affreschi di Giotto abbiamo gli scaffali di roba, ma poco conta, quello del capitalismo è comunque un tempio. Il fatto che un amore vero nasca lì dentro è simbolico della nostra condizione, vorrei un commento da te su questo. In generale, credo che si possa dire di te quello che ti ho sentito affermare di Michel Houellebecq in una recente intervista: sei, forse insospettabilmente, uno scrittore romantico. Non solo perché costruisci molto bene le scene di sesso, ma perché nei tuoi amori, anche nei più disastrosi, si coglie un che di salvifico, una pepita di senso ancestrale che suona e dice la sua, nonostante la sconfortante ostilità dei contesti e la miseria delle condizioni.

L’amore è il principio unificante per eccellenza, è il motore dell’evoluzione, è in ultima analisi il perché siamo ancora qui, nonostante tutta questa incessante fatica che è la vita. Diventa importante specialmente in un periodo come questo di tensione simbolica di tutti contro tutti, dove le grandi narrazioni sono finite e ognuno sembra lottare soltanto per il proprio gruppo di appartenenza e appare davvero difficile trovare un territorio ideale comune, anche minimo, su cui poi lasciare che si sviluppino delle differenze rispettose dell’altro. In fondo l’amore è un principio che non ha bisogno di essere socialmente fondato, accade, e non si capisce mai bene perché, è un gioco che milioni di anni di evoluzione giocano alla nostra coscienza, la sua imprevedibilità è anche la sua bellezza. D’altro canto come sarebbe stato possibile scrivere un romanzo che s’intitola Odio se dentro non ci fosse stata anche la polarità dell’amore? Non sarebbe stata una storia degna di questo nome.

Il romanzo non ha un’unica trama, per il lettore le fonti di piacere sono molteplici: certo c’è la distopia, il dopodomani cui tutto tende, ma c’è anche tanta vitalità, tanto oggi in cui ci si specchia con momentanea leggerezza. Il trio Marco-Emanuele-Mauro incarna molto bene la dinamica dei compagni di giochi che entrano nel mondo adulto, e che, piano piano, si sentono in dovere di «giustificare» la propria vita agli occhi degli amici. Coinquilini al tempo dell’Alma Mater, Marco è l’imprenditore fattosi da sé, Emanuele lo studioso forte di patrimoni secolari, Mauro lo scrittore di meritato successo, una parabola resa possibile anche dagli agi della sua ricca compagna di nobile lignaggio romano, dedita al sociale e carica di moralismi. «Fossero stati tutti condizionabili senza sapere di esserlo come Cristina, il valore di Before sarebbe stato ruffly 2,5 miliardi», sentenzia, fuori campo, Marco.

Ecco, queste e altre dinamiche relazionali – anche secondarie, si veda il papà di Sara, a mio giudizio il personaggio numero uno seppur sostanzialmente irrilevante nell’economica del racconto – sono costruite con una precisione d’intarsio e un’attenzione all’umano tale che quando lo sfondo politico inghiotte tutto, l’effetto è quello dei bassorilievi dei galeoni in fondo al nero del mare: aveva senso descrivermeli così bene, se tanto sono finiti lì? La mia impressione è che tu non sacrifichi mai i dettagli per due motivi: perché sono belli e meritano in sé, ma anche perché, soprattutto in Odio, è in quei dettagli che fai risuonare il senso complessivo dell’affresco. Con il senno del poi, tutto in Odio è in un certo senso premonitore…

Mi fa piacere che tu l’abbia notato perché in effetti è esattamente così, ci sono voluti quattro anni per scriverlo proprio per questo motivo, non c’è niente nel libro che non risponda al progetto complessivo. E questo è anche il motivo per cui il libro non è un saggio, ma un romanzo e per me era importantissimo che lo fosse nel senso più profondo e letterario del termine. Prendi il breve documento filosofico che il protagonista scrive verso la fine del libro, ogni volta che lo leggo da solo mi sembra buono, ma in fondo insufficiente. Se invece lo leggo assieme al resto del romanzo assume tutta un’altra valenza, ha un respiro diverso, più trasversale, più profondo, lo sento più condivisibile perché so che è l’espressione di una biografia ricostruita con dovizia di particolari. Lo sento nel suo essere il frutto di un essere umano intero, non solo della sua parte razionale: è in questo che il romanzo diventa imbattibile e ci aiuta a navigare anche nell’era della scienza. È una biografia, è una mappa individuale, non ha pretese di assolutezza, non è il manifesto di un partito, è la testimonianza di un uomo come me e te che attraversa il nostro stesso tempo.

Chiudendo il libro – che fatica non spoilerare –, mi è venuta in mente una celebre frase di De André, pronunciata sul palco l’ultimo tour, poco prima di morire: «Non ho mai avuto paura dell’uomo solo, ma dell’uomo organizzato». Anche qui, un’antica dicotomia che tu frequenti da tempo. Il libro si chiude con la netta distinzione tra chi è fuori, consapevole e dunque solo, e chi è dentro, aderente a una nuova organizzazione umana. Non saprei quale delle due condizioni è più spaventosa. Da osservatore della realtà e degli uomini, sei portato a diffidare di più della natura umana o delle organizzazioni sociali? Che idea ti sei fatto della relazione tra le due?

Senti non sono così convinto che DeSa abbia poi capito davvero molto più degli altri. Attraverso le sue scelte di vita anche coraggiose ha visto più cose della maggior parte delle persone e ha scoperto il potere disvelante della tecnologia rispetto alla natura umana, è vero, ma non ho alcun dubbio che nonostante la peculiarità della sua vita, DeSa sia ben lungi dall’aver capito tutto, il costrutto è romanzesco, il pretesto è biografico, Odio non è una teoria del tutto, è qualcosa in cui specchiarsi e vedere se non esce fuori qualcosa d’inaspettato rispetto alla conoscenza dell’animale che tutti siamo. Quanto alla differenza fra natura umana e organizzazioni sociali, esisterebbero le seconde se non fossero nella potenzialità della natura umana? Non credo possano esistere organizzazioni “innaturali”, penso però che ne possano esistere alcune preferibili ad altre.

Un’ultima cosa un po’ personale. Quand’è che chi scrive si rende conto di avere dentro la benzina per un romanzo? Quando lo si capisce, di esserlo, uno scrittore? Anche a livello di senso di appartenenza non me la vedo facile. Ogni giorno si iscrivono alla categoria geni incompresi che, con storie come la tua in mente, si ossessionano con il loro blog autoreferenziale; oppure personaggi diversamente mediatici, che approdano quasi d’obbligo al feticcio libro. Mi viene in mente Zalone ospite da Fazio, che presenta a favore di camera la copertina del volume che non ha ancora scritto, ma che già sa che gli chiederanno e che venderà migliaia di copie. Il titolo provvisorio è, per l’appunto, «Libro». C’è chi giustifica il raccontare e lo scrivere come urgenza «per sé stessi», come terapia, chi la sistema come un gesto di altruismo verso gli altri, chi accetta che non abbia un senso preciso ma che è così e basta. Qualunque sia il tuo movente (e da quello che hai capito, qual è?), come si tiene la barra dritta nel narcisismo che investe chiunque a un certo punto ipotizzi di avere qualcosa da dire e, di conseguenza, un pubblico? Anche quando legittimati dai riconoscimenti, non è abbastanza insopportabile sapersi scrittori? Cosa ti ha spinto, negli anni, a crederlo e a volerlo essere? Che vita è?

Qui ci vorrebbe una di quelle risposte roboanti da festival culturale però ora che hai citato quel genio assoluto di Zalone diventa un po’ difficile farlo senza mettersi a ridere. In realtà non ho una risposta precisa, da quando mi ricordo sono sempre stato interessato a cercare di capire il funzionamento del mondo che mi circonda, ho sempre letto molto, ho quasi sempre cercato di mettermi in situazioni complicate o strane con l’idea che male che andava ne avrei comunque ricavato qualcosa in termini di conoscenza. La tentazione conseguente di costruire una mappa scritta è venuta quasi subito. La mappa è imperfetta, è in divenire, per certi versi del tutto aneddotica e in ultima analisi personale, ma è anche la cosa che so fare meglio e anche una delle pochissime in grado di darmi una parvenza di senso. Quanto al narcisismo, stai parlando di uno che ha scritto il primo libro sotto pseudonimo, però devo dire che nel tempo sono arrivato a considerare un certo grado di narcisismo come qualcosa di sano, anche questa lotta censoria e assoluta contro ogni forma, anche perfettamente sotto controllo, di ego è abbastanza patologica, nasconde altri tipi di egocentrismi ben più contorti e disfunzionali, e si inserisce nei meccanismi dell’odio raccontati nel libro. Poi certo, l’ambiente editoriale è particolarmente ricco di casi di narcisismo patologico, da questo punto di vista è talmente un cliché che può capitare di avere a che fare con delle persone con cui è difficile rapportarsi per il semplice fatto che partono dall’assunzione di base che ogni autore sia di fatto uno psicopatico. Un’assunzione che gli  deve derivare dall’avere alle spalle parecchi precedenti, per carità,  ma resta il fatto che in casi come questi è virtualmente impossibile convincerli del contrario, ad esempio se gli dici «Ti ringrazio ma non c’è bisogno» queste persone pensano «Questo fa finta di fare la persona modesta, che megalomane», è un loop di presunzione di colpevolezza da cui con tutta la buona volontà non è possibile uscire, assomiglia un po’ al dialogo di Bill Hicks con i pubblicitari. Dopo un po’ capisci che in casi come questi l’unica cosa da fare è lasciar perdere e assecondarli. Poi però torni dai tuoi amici e per sbaglio gli rispondi come risponderesti a quel tipo di persona e i tuoi amici ti rispondono «non tirartela eh». Insomma alla fine capisci come si sono creati, tutti quegli psicopatici.

 

 

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La scorsa notte sono uscito sul terrazzo per prendere una boccata d’aria fresca prima di andare a dormire. Roma, di notte, emette un rumore bianco inesausto, da grande organismo che non dorme mai del tutto. Non è niente di sommesso, né di particolarmente crepuscolare, è una specie di rombo, basso, ondulato, persino greve, a tratti. Carlo Levi ha scritto che a Roma di notte “par di sentir ruggire i leoni”. Qualcosa del genere, in effetti.

Ha anche aggiunto “nato da macchine è un suono animalesco, che par venire da viscere nascoste o da gole aperte invano a cercare una parola impossibile (…) è un rumore pieno d’ozio, come uno sbadiglio belluino, indeterminato e terribile”. Di certo c’è che si tratta del risultato più o meno costante di un’addizione mutevole: è il rumore degli affari umani – seppur in chiave minore, notturna appunto.

L’altra notte mi è parso subito chiaro, con l’autoevidenza di un’intuizione istintiva, che la situazione era cambiata. Non c’era silenzio, quello no. Il silenzio autentico, profondo, a Roma è un fenomeno che si presenterà – forse – alla fine dei tempi. Mancava però il respiro collettivo della città e ogni singolo suono era riconoscibile in una sua inedita specificità. Sotto una cupola di nuvole basse e opalescenti sono rimasto ad ascoltare.

Ho udito distintamente il gorgheggiare di due diversi gabbiani, il rumore di un tram che sferragliava di fronte a un ministero nemmeno troppo vicino, il fischio di una macchina per le pulizie dei pavimenti nell’ospedale davanti a casa, un singolo passante che prendeva a calci una bottiglia. Ogni suono separato dall’altro, con delle pause, queste sì, fatte di qualcosa che assomigliava a un autentico silenzio.

Erano assenti i leoni, il rumore bianco indistinguibile, la somma sonora della vita nella città. Non c’era cioè traccia di quella sorta di dichiarazione d’indifferenza e superiorità che la capitale dedica a qualsiasi suo abitante, come un’eterna scrollata di spalle. Era una notte della pandemia, la sua povertà di suoni era il verso della quarantena, la controparte notturna delle molto celebrate canzoni alle finestre.

Quel silenzio era il suono del vuoto, parziale eppure notevole, in cui è costretto il mio Paese in questi giorni. È arrivato come un esito inaspettato, dopo settimane di discorsi contraddittori, di suicide fughe di notizie, di provvedimenti abbozzati, di leader improvvisati che si dimostrano esattamente quello che sono – dei principianti inadeguati –, di medici e infermieri lasciati senza mascherine e protezioni, di tamponi fatti con una metodologia che con ogni probabilità sottostima di diversi ordini di grandezza la reale dimensione della pandemia e di un rito – quello della conferenza stampa della protezione civile– che ogni giorno assume toni più surreali, dato che si recitano numeri che non hanno più alcuna capacità di descrivere la situazione reale del Paese.

Che ogni giorno qualcuno dica che l’Italia è il Paese che ha fatto più tamponi non conta assolutamente nulla, il parametro importante è quanti se ne fanno rispetto all’ampiezza della propria epidemia. Un rito questo della conferenza stampa che prima finirà, o prima sarà sintonizzato sui veri numeri, e meglio sarà per tutti, anche a costo che qualcuno ammetta di aver sbagliato.

Invece questi numeri parziali si continua a darli, si continua a ignorare che i tamponi sono fatti in larga maggioranza solo a ex contagiati e nuovi contagiati altamente sintomatici. Nulla o quasi per gli asintomatici o per i sintomatici normali, lasciati alle tachipirine e alla grazia di Dio nelle loro case, dove molti di loro si aggravano e muoiono soffocati nel giro di poche ore, soli come cani o al cospetto di famigliari impotenti, senza nessuno che li aiuti, senza che nessuno li porti in ospedale visto che in certe zone d’Italia oggi per un’ambulanza possono servire otto ore.

Scene terrificanti, indegne di un Paese democratico, drammi che finiscono per falsare anche il numero ufficiale dei morti visto che nessuno fa i tamponi ai cadaveri. Molti sindaci dei paesi del bergamasco hanno denunciato un’impennata di morti ben oltre la normale media statistica di questo periodo dell’anno, decessi che solo in piccola parte vengono attribuiti al Covid19.

In quei numeri nascosti – la somma di morti ufficiali e non ufficiali – possiamo provare a cercare la vera dimensione della mattanza, e, incrociandola poi con i dati internazionali sulla mortalità del virus, incominciare a capire le vere dimensioni dell’epidemia italiana. Facendolo intravediamo un disastro, un tracollo assoluto, nascosto da una mancanza di trasparenza iniziata forse per assurde ragioni d’immagine (non apparire un paese-lazzaretto per tutelare l’industria turistica) e poi aggravatasi per impreparazione, tracotanza e sottovalutazione.

Cosa pensano in queste ore i parenti delle vittime sentendo il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlare dell’epidemia come di un momento utile per riflettere su sé stessi? Sono parole che sarebbero forse adatte alla penna di uno scrittore o di un filosofo, ma pronunciate da chi ricopre il ruolo di primo responsabile della gestione dell’emergenza, assomigliano di più a uno sfregio fatto a quanto abbiamo di più caro e non sono altro che l’ennesima dimostrazione di inadeguatezza.

È una questione di ruoli, ma è anche vero che se ancora esistesse un rispetto dei ruoli e della preparazione necessaria per svolgerli, Giuseppe Conte, privo com’è di una storia politica e di governo, difficilmente potrebbe essere Presidente del Consiglio italiano. Il dramma è infatti anche quello di essersi trovati di fronte a una crisi senza precedenti con una classe politica anch’essa senza precedenti, ma in negativo. E se in tempi normali sotto un comando inadeguato si vivacchia, ci si avvita in una decadenza inesorabile ma graduale – qualcosa che si può cioè sforzare d’ignorare – la tempesta perfetta mette a rischio la vita dell’intero equipaggio. Il naufragio è una possibilità immediata, chiaramente percepibile da tutti.

Chi si ripete che in fondo molti altri Paesi non stanno facendo poi meglio di noi dovrebbe capire che ragionamenti del genere sono la via più sicura per il collasso definitivo, per la tragedia ultima. Sono gli esempi positivi quelli da seguire, non quelli negativi. L’Italia prova coraggiosamente a reagire alle deficienze della sua leadership, lo fa attraverso l’azione di regioni e sindaci, con l’attivismo dei giornali e con una classe medica che parla pubblicamente e ogni giorno accetta un po’ di meno di essere celebrata retoricamente da un potere che non ha esitato a mandarla al massacro, impreparata e senza protezioni.

Nelle ore in cui Conte saltava da un programma all’altro a dire che il Paese era preparatissimo, i medici in tutta Italia venivano mandati al lavoro senza mascherine. Poi, non disponendo di protezioni in una quantità congrua, non essendosi organizzati per tempo, si è a lungo negata la loro utilità, in sfregio ad ogni logica. Abbiamo avuto conferenze tenute in ritardo mostruoso e senza la presenza della stampa, decreti raffazzonati, annunci contrastanti, fughe di notizie, autocertificazioni cartacee (come fosse il 1800) e cambiate infinite volte.

Abbiamo avuto la retorica degli angeli e l’inno nazionale sparato dalle casse e la bufala del “modello Italia” al posto degli stock di mascherine, delle tute anticontaminazione, degli antivirali anche per i sintomatici a casa, dei tamponi per i potenziali contagiati, anche se asintomatici. Delle app per il tracciamento delle persone in quarantena nessuna traccia. Cose degne di quei regimi che ora sgomitano per comprarsi la benevolenza degli italiani con l’invio di qualche aiuto, fra cui medici che avranno accesso alle nostre informazioni sensibili.

Fra queste nazioni – con estremo sfregio del ridicolo – siede anche la Cina. Un Paese che prima ha lasciato aperti, all’interno di città sovrappopolate, mercati privi di qualsiasi standard sanitario e a rischio spillover, e poi, a infezione iniziata, ha taciuto a lungo, permettendo così alla pandemia di diffondersi in tutto il pianeta. Un’imprudenza che costerà al mondo intero decine di migliaia di morti – nella migliore delle ipotesi – e un numero al momento incalcolabile di miliardi di euro in danni economici. Grazie comunque per le mascherine.

Tutto questo, tutto assieme, è davvero difficile da sopportare, e se è vero che ognuno di noi all’inizio di questa vicenda ha tentennato, si è augurato che la situazione non fosse poi così terribile come si diceva, è vero anche che le responsabilità degli esperti e di chi ha il comando in una democrazia avanzata, di chi cioè ha il dovere di tutelare la popolazione, sono ben diverse.

Da questo punto di vista lo stile di leadership apparentemente conciliante, moderata e prudente di Conte apparirà forse a qualcuno come rassicurante – agli italiani piace da sempre un decisore che non decide – ma all’atto pratico si risolve in inazione o azione ritardata, insufficiente. Il dramma dell’Italia in queste ore è anche il dramma di un Paese che negli ultimi anni si è incaponito nell’idea che al governo vadano benissimo gli incompetenti, gli improvvisati, gli estemporanei, li ha anzi agognati come soluzione – semplice e lineare – ad ogni problema.

È il dramma di un Paese che ha visto degenerare il dibattito televisivo nelle forme sempre meno informative dei talk show urlanti e superficiali e che oggi non riconosce le autentiche autorità nei differenti campi del sapere. È il dramma di un Paese che emargina con determinazione e progettualità le sue teste pensanti e che quando poi si trova alle prese con un cigno nero annaspa, orfano delle sue risorse migliori, e pensa piuttosto a tutelare la propria immagine, il consenso politico del momento, invece che la propria popolazione e il proprio futuro. Finito tutto questo bisognerà fare i conti, bisognerà partire da tutti questi errori, dall’accertamento delle responsabilità per costruire un’Italia profondamente diversa.

Nel silenzio di una Roma quasi spenta, ho immaginato suoni che tornavano uno dopo l’altro a formare il ruggito dei leoni, solo che questa volta erano suoni più intonati, disposti in un ordine migliore, più sensato, un ordine che permettesse di pensare al presente e al futuro con serenità. Una delle tragiche verità della storia è che disastri come guerre, o appunto epidemie, rimescolano le carte, fanno ripartire le società dopo averle quasi distrutte e essersi lasciati alle spalle morti e disperazioni indicibili.

Il problema con le opportunità che i grandi shock possono “offrire” non è soltanto morale – molti devono effettivamente morire ­– ma anche che è necessario lo shock adatto, in fondo una pandemia come quella del Coronavirus può colpire in maniera durissima le popolazioni per via del collasso dei sistemi sanitari ma rappresenta una minaccia ridotta per chiunque possa permettersi un piccolo reparto di terapia intensiva privato in casa, ovvero l’intera oligarchia del pianeta. Anche i meccanismi livellatori che hanno attraversato la storia dell’uomo con drammatica efficacia trasversale, oggi sono messi in discussione dalla tecnologia, per cui ogni teoria sull’apertura di nuovi spazi dopo tragedie collettive va riconsiderata alla luce di questi sviluppi. Fortunatamente però non c’è bisogno di augurarsi come unica condizione per la rinascita che la tragedia in corso diventi ancora più profonda e radicale. Si spera anzi il contrario.

Credo esista un’altra possibilità – ben più allettante rispetto alla distruzione creativa – e sia quella che a farci andare avanti, ad aiutare l’Italia a ripensarsi, potrebbe essere proprio lo spirito di unità e di cooperazione emerso nella nostra società durante le ore e i giorni di questo dramma collettivo. Potrebbe essere questo senso di comunità il lascito prezioso – e altrimenti irraggiungibile – dei sacrifici che per una volta stiamo facendo tutti quanti assieme, come italiani. Mi pare questa la vera promessa del silenzio disteso sopra Roma.

( Questo articolo è stato pubblicato venerdì 27 Marzo su Il Foglio – Foto LaPresse)

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La colpa è degli altri http://www.danielerielli.it/lacolpaedeglialtri/ http://www.danielerielli.it/lacolpaedeglialtri/#comments Wed, 13 May 2020 12:57:37 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4406 Continua a leggere]]> Il fallimento di questa classe dirigente improvvisata è l’ultimo atto di una politica italiana che ha ipotecato il futuro per comprare consenso e tentare così di nascondere la gravità della situazione.

Ormai è evidente: il grande assente dal dibattito italiano sul Coronavirus è la questione del debito pubblico. Eppure, se nell’affrontare l’epidemia non ci possiamo permettere il relativo agio di Paesi come la Germania e andiamo invece con il cappello in mano a chiedere soldi ad altri Stati, è proprio per via del nostro debito.

Se all’inizio di questa emergenza l’Italia aveva meno posti in terapia intensiva per abitante rispetto ad altri paesi europei è perché per anni i soldi destinati a questo genere di investimento e alla crescita del Paese sono stati invece spesi (senza alcuna misura) per comprare consenso politico, alimentare clientele, tenere in vita artificialmente aziende decotte e finanziare una macchina burocratica che sembra passare la maggior parte del tempo a impedire agli italiani di lavorare.

Se ora si offrono prestiti – che non si capisce come dovrebbero essere ripagati nel contesto di crisi economica radicale che ci aspetta – o si discute di piccoli aiuti a fondo perduto  – in percentuali del tutto  insufficienti – per ristoratori, operatori del turismo e aziende colpite da Covid, è perché per decenni abbiamo buttato via i soldi che sarebbero serviti ad affrontare situazioni di emergenza come questa e a finanziare quegli investimenti magari in perdita nell’immediato ma utili alla salute del sistema sul lungo periodo, voci di spesa come sanità, istruzione, ricerca. Complice anche un contesto mediatico che – nel bisogno di vendere minuti di pubblicità al prezzo più alto – premia chi la spara più grossa, chi è più retorico, roboante e savonarolesco, la classe politica italiana degli ultimi decenni è stata contraddistinta da una caratteristica trasversale: una pressoché totale mancanza di responsabilità intergenerazionale.

Una quantità sostenibile di debito può avere senso se utilizzata per finanziare la crescita di un Paese, ma negli anni la strategia di base della politica italiana è stata quella di comprare consenso nel presente scaricando i costi sul futuro, in genere ammantando questa ruberia con grandi dichiarazioni di principi. In pratica quello che è stato fatto è un viaggio nel tempo per prelevare dai conti in banca di figli, nipoti e pronipoti, che tanto non essendo ancora nati non possono protestare. Che in Italia il tasso di natalità sia basso tutto sommato è una delle poche cose perfettamente sensate. Questo proprio mentre siamo oggetto delle mire espansionistiche di una dittatura – quella cinese – che per definizione ragiona sul lungo periodo. Il piccolo cabotaggio dell’attuale classe politica italiana rispetto all’enormità delle minacce che ci circondano è sotto gli occhi di tutti e ci rende terra di conquista delle più agevoli.

Il cambiamento che auspicavo nel mio pezzo all’inizio dell’emergenza era esattamente questo: un bagno di realtà sulle condizioni della società italiana e sulla tendenza suicida a farla guidare da persone del tutto inadatte, nel senso proprio di scarsamente competenti e inadeguate all’elevatissima complessità del compito che le aspetta.

Quello che invece abbiamo avuto è stata la grande caccia al Paese cattivo del nord che non vuole cacciare i soldi – domanda, noi cosa faremmo al posto loro? – e l’attacco in stile dittatura morbida contro chiunque sollevasse dubbi sul governo e sul suo operato. Si va dal tipico “E allora Salvini?”, riedizione contemporanea dell’ormai tragicamente famoso “E allora il Pd?” ai grotteschi appelli su Il Manifesto (Il Manifesto!) contro ogni dissenso con la cabina di regia.

Insomma, pluralismo e democrazia rimangono sempre concetti largamente alieni a quella parte dell’opinione pubblica che pare incapace di ragionare se non in termini di clan, famiglia, fazione. Per queste menti naturalmente tribali il merito delle questioni appare un noumeno irraggiungibile, una variabile in fondo del tutto irrilevante quando invece è l’unica cosa che conta ed è quello su cui si dovrebbe concentrare la dialettica delle parti politiche. L’Italia, al contrario, pare bloccata in un eterno o con me o contro di me.

Una delle differenze con la Germania ad esempio è che quando i comitati scientifici parlano alla Merkel, la Merkel, con tutti i suoi difetti, capisce quello che le stanno dicendo e dà tutta l’impressione di ragionare in maniera analitica. La preoccupazione numero uno di Conte sin dall’inizio è invece parsa essere quella di tranquillizzare, mediare, lanciare il sasso e poi nascondere la mano, vedere come si sviluppavano le cose, e in ogni caso comunque mai trattare gli italiani come degli adulti. Insomma nessuna linea chiara se non quella di agire come un vero uomo dei palazzi romani del potere[1], contesto nel quale infatti Conte si è formato: la relazione prima della competenza, la mediazione prima della decisione, la convenienza politica prima della realtà dei fatti, la cosmesi prima della presa di coscienza della gravità della situazione.

Con un atteggiamento del genere non si va lontano in generale, durante una crisi poi i risultati possono essere disastrosi, come infatti è regolarmente accaduto.

La reazione della politica di fronte all’inasprirsi della crisi è stata un’ulteriore sforzo nell’alterare la realtà fino a farci assistere a scene francamente surreali e da italietta come i momenti in cui Conte – durante le sue dirette Facebook – ha spiegato al popolo quanto l’azione del nostro paese contro il Covid fosse tenuta in massima considerazione nel resto del mondo. Come no, con un numero di morti che in quel momento era il secondo più alto del pianeta (ora è il terzo) tutti guardavano al modello Italia.

La vera cifra della considerazione di cui gode nel mondo questa classe dirigente italiana è nel ritardo con cui tutti gli altri Paesi europei hanno adottato misure di contenimento: nessuno ci ha preso sul serio. Ma facciamo finta per un momento che le cose stiano diversamente, che davvero, cioè, l’azione di governo italiana fosse ben considerata dagli altri Paesi, quanta sudditanza psicologica, quanta dichiarazione d’inferiorità contiene un’affermazione del genere? Chi fa i compiti a casa, chi si comporta seriamente, chi non ruba il futuro alle proprie generazioni, chi non reagisce istericamente alle domande dei giornalisti non ha bisogno di sentirsi dire dagli altri che sta andando bene, lo sa già.

Al contrario chi è nella confusione più totale, perché non ha categorie solide per interpretare la complessità e l’estrema variabilità del mondo agisce alla cieca e poi, di fronte al proprio fallimento, evoca apprezzamenti altrui. Insomma prova a nascondersi dietro i pezzi di carta, altro atteggiamento disfunzionale tipico dei sistemi burocratici in aperta decadenza. Si compie cioè il passaggio di responsabilità personale al documento che certifica che là fuori sarà pure tutto in fiamme, ma le carte sono in regola. Lo stesso riflesso pavloviano che porta Conte a dire che all’estero ci apprezzano moltissimo dopo che a due mesi e mezzo dall’inizio dell’emergenza ancora non si fanno tamponi a sufficienza, non è in uso alcuna tecnologia di tracciamento e non sono ancora disponibili in numero sufficiente mascherine e altre protezioni.

Il problema per il governo è che poi la realtà attorno a noi permane, tutti ne facciamo parte e la subiamo. Quello che succede, ad esempio, è che ristoratori e commercianti debbano riaprire – nonostante condizioni sanitarie precarie e (probabilmente) pochissimi clienti ad attenderli – perché lo Stato non ha i fondi per aiutarli e nello stesso momento si vogliono buttare ALTRI 3 MILIARDI per Alitalia, gli ennesimi. Il trucco comunicativo insomma è di corto respiro perché la realtà è fin troppo severa ed è sotto gli occhi di tutti. Un’Italia il cui lo sforzo maggiore della classe dirigente sembra quello di negare l’evidenza non ha futuro.

L’aspetto più terribile di questa situazione è che non sembra esserci nell’orizzonte politico alcun soggetto in grado di intestarsi a buon diritto i concetti di responsabilità e competenza e aggregare attorno a essi un consenso sufficiente a governare il Paese.

Qui il discorso è ampio, la risposta semplicistica è dire che in fondo agli italiani va bene così. Può darsi, anche se non credo. M’interrogo invece se sarebbe possibile nell’attuale contesto mediatico l’emersione di un politico che predichi responsabilità sui conti, visione di lungo periodo, affronti i problemi in maniera analitica e prima ancora di legiferare s’interessi dei meccanismi che regolano la quotidianità dei cittadini invece che limitarsi a fare sparate demagogiche e poi raffazzonare dei provvedimenti che aumentano solo l’entropia legislativa italiana. Mi sembra molto difficile. In maniere diverse i media generalisti da un lato e i social network dall’altro sono entrambi canali comunicativi che premiano l’audience e l’engagement – è così che fatturano pubblicità – e quindi campano di sensazionalismo, di retorica a buon mercato o di quotidiano sacrificio di un capro espiatorio.

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(Esempio di chiarezza legislativa italiana)

Per inciso il sacrificio del capro è l’esatto contrario della responsabilità, perché serve ad allontanare i responsabili dall’azione della giustizia, sacrificando al loro posto qualcuno che non c’entra nulla. È una sorta di meccanismo omeostatico con cui si bilanciano le società primordiali e che si cerca – sempre con un certo affanno, ma l’uomo è tutt’altro che perfetto – di superare attraverso lo stato di diritto e il governo delle leggi. La riemersione del meccanismo capro e con esso dell’impossibilità di individuare le vere responsabilità, segnala sempre l’avanzato stato di decadenza di una società, il ritorno, cioè, alle sue forme primitive, alla guerra di tutti contro tutti.

Le esigenze sensazionalistiche dei media contemporanei – afflitti da una radicale crisi del modello di business –  sono tuttavia una condizione strutturale comune a tutte le democrazie occidentali avanzate, che pur in affanno non sembrano, almeno nella maggior parte dei casi, trovarsi in situazioni drammatiche quanto quella italiana.

È quindi nella specifica declinazione nazionale – la maniera cioè con cui questa situazione tecnologica-industriale dell’informazione impatta su una specifica cultura – che va ricercata una parte delle cause della nostra situazione.

In sostanza l’unione fra una cultura retorica e idealistica come quella italiana mal si sposa con dei mezzi di comunicazione che hanno un’uguale ritrosia nei confronti dei fatti, dei dati, dei numeri e, potremmo spingerci dire, del semplice argomentare logico.

Come uscirne?

[1] Un interessante ritratto di questo mondo scritto da un insider è contenuto in  “Io sono il potere”, Feltrinelli, 2020

Image by djedj from Pixabay

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Il cortocircuito della campagna per cancellare Netflix http://www.danielerielli.it/il-cortocircuito-della-campagna-per-cancellare-netflix/ http://www.danielerielli.it/il-cortocircuito-della-campagna-per-cancellare-netflix/#comments Fri, 18 Sep 2020 07:58:37 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4633 Continua a leggere]]>  

( Questo articolo è apparso su Domani il 18/09/2020, illustrazione di Doriano Strologo)

Nel momento in cui scrivo la campagna di boicottaggio #CancelNetflix ha raccolto 640mila firme in tutto il mondo e causato una grossa perdita in borsa al titolo del gigante americano. Soprattutto, #CancelNetflix si è dimostrata una campagna estremamente simbolica di alcuni meccanismi chiave del nostro tempo. Questo, in breve, il riassunto di quello che è accaduto: Netflix ha messo online Mignonnes, un film francese premiato al Sundance film festival – un’opera che tratta dell’ipersessualizzazione delle bambine – e lo ha annunciato attraverso una locandina in grado di attirare l’attenzione di quel genere di persona che sta tutto il giorno su Twitter a controllare che non ci sia per sbaglio al mondo qualcosa che non risponda esattamente al suo volere per poi denunciarlo seduta stante. Nel caso specifico l’immagine ritraeva le attrici preadolescenti di Mignonnes nella scena più disturbante del film, il climax drammatico del lungometraggio, il momento cioè in cui, vestite come le ballerine dei video musicali, si esibiscono in pose ricalcate in maniera grottesca e inquietante su quelle delle loro omologhe adulte. Il risultato è stato un boicottaggio globale contro il film, accusato immediatamente di istigare alla pedofilia. (continua a leggere su Domani)

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COSA NON TORNA NELL’ULTIMO EPISODIO DI GAME OF THRONES http://www.danielerielli.it/cosa-non-torna-nellultimo-episodio-di-game-of-thrones/ http://www.danielerielli.it/cosa-non-torna-nellultimo-episodio-di-game-of-thrones/#comments Wed, 15 May 2019 11:53:53 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4214 Continua a leggere]]> !Spoiler alert; serie 8 episodio 5!

(siete avvisati, anche se dopo tutto questo tempo dalla messa in onda o l’avete visto o non vi interessa veramente)

Come tutti gli appassionati di Game of Thrones sanno la penultima puntata in assoluto della serie è stata molto divisiva. Specie nel mondo anglosassone si sono moltiplicate le accuse agli sceneggiatori di essere “lazy” per aver adottato una sequenza di soluzioni narrative un po’ troppo semplici e quindi in contrasto con l’estrema accuratezza che ha caratterizzato la serie, o, quanto meno, l’ha caratterizzata fino alla sesta stagione. Credo che alcune di queste accuse siano fondate, ma che giunti a questo punto della storia le opzioni fossero al tempo stesso limitate. Vediamo perché.

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(Uno scorpio: da infallibile missile Patriot a cerbottana in sette giorni)

In molti si concentrano sulla mancanza di motivazioni solide dietro al raptus di follia assassina di Daenerys, e questo è, come vedremo più avanti, sicuramente un tema interessante. Lo snodo narrativo però più palesemente indegno di una storia come Game of Thrones è quello che riguarda gli scorpio, ovvero i balestroni anti-drago che sono rispuntati (dopo potenziamento) ovunque nel corso della 4° puntata della stagione, quando, nell’ordine, hanno abbattuto con disarmante facilità uno dei draghi (riducendo la flotta di rettili volanti di un notevole 50%), messo in rotta Daenerys con il drago rimanente e distrutto una quantità indefinita di navi Targaryen. In questo video ufficiale HBO lo staff della serie spiega genesi e potenza invidiabile dei nuovi scorpio. A questo punto chiunque, vedendo i balestroni appollaiati non solo sui ponti delle navi ma anche sulle torri di cinta di King’s Landing, è stato quindi (appositamente) portato a pensare: ecco una vera Ztl per draghi. Il che cambiava di parecchio le prospettive sulla battaglia successiva. Cambiava anche le quote-scommessa sulla corsa al trono perché con un altro abbattimento Daenerys si sarebbe ritrovata priva di draghi incenerenti e a quel punto il fatto che non sia mai stata proprio simpaticissima sarebbe potuto emergere presso le sue truppe. Lo scopo principale della 4° puntata sembrava essere quello di convincerci che l’armata Cersei grazie alla flotta di Euron + mercenari della Golden company + (soprattutto) nuova contraerea, fosse in una condizione di parità, se non addirittura di superiorità. Questo specie se si pensa per un momento anche agli ettolitri di Wildfire nascosti nei cunicoli della città, e che potevano essere usati, con il più tipico dei Cersei-move, per creare un Vietnam inespugnabile, a spese anche dei residenti di King’s landing, gente che tutto sommato avrebbe anche qualche ragione per non pagare le addizionali comunali. .

Insomma il cliffhanger della 4° puntata suggeriva apertamente possibili (serie) complicazioni sulla strada del legittimismo targaryano.

Già qui comunque avevamo assistito a una scena assolutamente non coerente con la real politik delle vecchie stagioni di Game of Thrones, quando cioè un minuto drappello con tutta l’élite dragomunita dei Targaryen si era messo a portata di scorpio e di arcieri di fronte alle mura di una città governata da una psicopatica conclamata come Cersei. La Lannister però dimostra che nelle scuole di Casterly Rock non si studia Tito Livio e si lascia miseramente sfuggire l’opportunità di tagliare tutti gli alti papaveri del fronte nemico e terminare così vittoriosamente la guerra senza nemmeno combatterla. Un’ingenuità decisamente poco Cersei. E già qui in molti abbiamo storto il naso.

La puntata numero cinque nasce comunque sotto gli auspici di una battaglia campale, poi però succede l’inspiegabile: Daenerys cala dal cielo con il suo ultimo drago e distrugge in circa 20 secondi tutta la flotta di Euron (non il piccolo drappello di navi che aveva abbattuto un drago con facilità bambinesca la puntata prima, ma tutta la flotta) dopodiché passa agli scorpio sulla costa e a quelli sulle mura, i quali dal canto loro dimostrano la precisione di tiro dei terroristi arabi nei film americani anni 80, ovvero non prenderebbero un elefante (o un drago) da 5 metri di distanza. In un paio di minuti senza nessuna spiegazione plausibile Daenerys distrugge quindi forze parecchie volte superiori a quelle che qualche giorno prima l’avevano messa in fuga con la codona di drago fra le gambe.

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(abbiamo scherzato)

Questo passaggio è talmente imbarazzante da un punto di vista narrativo che viene saltato a piè pari in entrambi i behind the scenes pubblicati da Hbo dopo la puntata ( questo e questo ). E stiamo parlando di speciali che spiegano sempre la genesi di tutti i passaggi importanti delle puntate. In questo caso invece no, probabilmente era un momento troppo indifendibile.

Perché una scelta del genere?

Il problema qui per gli sceneggiatori stava nel fatto che dopo la battaglia con i White Walkers si sapeva che Daenerys poteva scendere a King’s Landing e fare un grosso barbecue della città. Il massimo dilemma era quello morale, ovvero come prendere la città senza arrostire nel mentre tutti gli abitanti, gli stessi che, per inciso, si erano fatti malamente abbindolare da quel Beppe Grillo di Westeros che era l’High Sparrow. Insomma interessante, ma –gli sceneggiatori devono aver pensato– fino a un certo punto. Quindi serviva aggiungere tensione sulla battaglia imminente. Benissimo. Il problema è che, come abbiamo visto, poi non si prendono la briga di risolverla.

Come avrebbero potuto fare diversamente?

La prima opzione che viene in mente è che qualcuno della folta élite targaryana avrebbe potuto trovare il modo di rendere inutili gli scorpio, un Tyrion che corrompe il capo della guarnigione contraerea, un Ser Davos che infiltra dentro le mura un commando di assassini per uccidere gli operatori dei balestroni, un Samwell Tarly che fa sapere via corvo che esiste un batterio in grado di distruggere il legno di cui sono fatti gli scorpio. Quello che volete, pensandoci un po’ sopra di sicuro possono uscire idee migliori di queste. L’importante in questo scenario è che chi offre la soluzione al problema della contraerea faccia parte in una maniera o nell’altra dell’entourage di Daenerys. Immaginate che intensità ne sarebbe scaturita se fosse stato John Snow ad aprire la via al drago che subito dopo avrebbe incenerito decine di migliaia di innocenti. Sussurra ora, nordico che si scopava sua zia.

Il problema qui sta probabilmente nelle implicazioni successive, è molto probabile che affinché il finale si riveli d’impatto sia necessario coltivare una sensazione di onnipotenza di Daenerys. Se il suo successo in battaglia fosse subordinato ad una momentanea sospensione delle attività contraeree causata dei suoi stessi uomini, allora il suo dominio sembrerebbe meno imperioso, meno irrevocabile. E questo non va bene, perché quando e se sarà invece revocato sarà necessario che ciò avvenga attraverso il superamento di una notevole difficoltà e non, quindi, in venti secondi come fosse una flotta di Euron qualsiasi. Vedete qui quindi la contraddizione di scopi: da un lato per sostenere le sei puntate della stagione 8 bisognava comunicare la battibilità dei draghi (draghi onnipotenti stufano subito), dall’altra si era creato a questo punto della storia il bisogno di fornire di nuovo a Daenerys dei mezzi insuperabili. Da qui nascono quei due minuti imbarazzanti in cui spazza via tutto l’esercito nemico senza nessuna pretesa di plausibilità narrativa.

Si potevano trovare soluzioni alternative? Probabilmente sì, ma a questo punto dovrebbe essere evidente come non si trattasse di un compito facile, anzi.

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(Daenerys esporta la targaryancrazia a King’s Landing)

Infine la questione dell’ammattimento subitaneo di Daenerys. In realtà la cosa è stata annunciata più volte durante la serie ma sempre attraverso una serie di cenni e riferimenti che si sono dissolti dentro l’enorme massa narrativa di 8 stagioni caratterizzate da una miriade di storylines. Si poteva lavorare meglio sui cenni dell’imminente pazzia? Anche in questo caso probabilmente sì, ma senza esagerare, altrimenti Snow, Tyrion (che fa bruciare vivo il suo migliore amico), e il resto dell’oligarchia si sarebbero resi moralmente complici del massacro. Insomma, si trattava di un equilibrio sottile. Il problema vero qui sta nel fatto che Daenerys può avere dei motivi per cercare una vendetta sanguinosa nei confronti dei Lannister e in genere del potere kingslandiano, ma non si capisce – proprio non si capisce – perché dovrebbe bruciare vivi i residenti della città, così come parte delle sue stesse truppe.

Razzismo anti-westeros? Cos’altro?

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( E se li uccidessi tutti? La butto lì eh)

Nei behind the scenes ufficiali l’argomento viene trattato ma si parla soltanto di una vendetta contro gli usurpatori. Perché questa vendetta debba attardarsi a bruciare vivi degli innocenti rimane inspiegato. In ultima analisi anche questa è una sciatteria, se l’odio anti-Lannister si estende a tutto il popolo di Westeros va bene, ma sarebbe stato utile vedere uno o più episodi che con il senno di poi potessero rivelarsi seminali per questo tipo di razzismo estremo nella bambina dell’ovest diventata donna ad est.

Comunque la si metta, anche tenendo conto del fatto che le conclusioni sono sempre molto più difficili delle orchestrazioni intermedie e che qui la gestione del materiale era veramente complicata, rimane il dubbio che il vecchio George Martin avrebbe probabilmente ottenuto risultati migliori. Certo però impiegando molto, molto, più tempo.

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POLARIZZAZIONE http://www.danielerielli.it/polarizzazione/ http://www.danielerielli.it/polarizzazione/#comments Wed, 06 Mar 2019 12:02:17 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=4160 Continua a leggere]]> Appunti per “Polarizzazione”, una storia d’amore nel XXI° secolo.

Contrariamente a quello che accadeva alla maggioranza delle persone, nella vita di Luisa e Piero la politica era la cosa più importante, una sorta di ossessione personale. Vivevano entrambi come seguendo i dettami di una fede, un credo laico, per cui l’aderire o meno delle persone che andavano conoscendo nel corso della vita a una serie di regole, di non detti, di assunti pregiudiziali, segnava il confine fra l’essere davvero una persona oppure, al contrario, una specie di essere demoniaco, malvagio, al di fuori del consesso umano. O della loro bolla social, che per Luisa e Piero era la stessa cosa. Passavano molto tempo su twitter e avevano vite complessivamente poco stimolanti, una situazione alla quale il loro fortuito incontro – durante un aperitivo di Natale che celebrava la fusione delle aziende dove lavoravano – prometteva di mettere fine, sostituendo la misera dopamina di un retweet con l’appagante complessità di lunghi e gioiosi amplessi in grado di riconciliare un essere umano con l’universo, i suoi atomi, i suoi misteri. Purtroppo per il loro amore, le loro posizioni politiche – le stesse in cui si era divisa l’Italia in quel periodo– erano fra loro assolutamente inconciliabili. Per Luisa un politico serio poteva solamente esporre cibo sui social, per Piero invece poteva anche consumarlo durante una diretta facebook. Si lasciarono senza superare mai davvero il rammarico per quello che sarebbe potuto essere e invece non era stato.

Schermata 2019-02-18 alle 12.58.22 PM

Schermata 2019-02-18 alle 12.56.40 PM

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CHI CLARKSON SEI? (Riders magazine) http://www.danielerielli.it/chi-clarkson-sei-riders-magazine/ http://www.danielerielli.it/chi-clarkson-sei-riders-magazine/#comments Fri, 19 Jun 2015 09:20:37 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=2673 Continua a leggere]]>  

Speed provides the one genuinely modern pleasure

Aldous Huxley

“Quest’Alfa è veloce anche se credo che avrebbero potuto farla più veloce , dopo però sarebbe stata più veloce di una Ferrari, e in Italia è una cosa che non è socialmente accettata, un po’ come vomitare sul Papa”

 Jeremy Clarkson durante il test drive dell’Alfa Romeo 8c

Questo non è il tipo di frase che vi aspettereste di sentire guardando Easy driver, il programma di motori di Rai uno, né, per essere clementi con la televisione di Stato, in nessun altro programma di motori al mondo. Il fatto è che nonostante questo, o forse proprio per questo, battute del genere funzionano. Funzionano talmente tanto che le sentivano 350 milioni di persone, il pubblico medio di Top Gear, il programma “fattuale” (infelice traduzione italiana per indicare che si tratta di non-fiction) più visto del mondo. Il passato è d’obbligo, almeno per il momento, perché l’uomo autore di questi e tanti altri commenti simili, Jeremy Clarkson, il più importante del trio di uomini di mezz’età che conduceva la trasmissione, ha pensato bene di picchiare uno dei suoi producer, causando la sospensione del programma e il mancato rinnovo del contratto. Per la prima volta dopo 12 anni.

Il programma

Per dirla con le parole dell’executive producer Andy Wilman

“Top Gear è un viaggio nella mente maschile, che credo sia potenzialmente un posto molto divertente, perché, facciamocene una ragione, non accade nulla là dentro.”

In sostanza un gruppo di tre amici di mezz’età, che fanno (o sono costretti a fare dai misteriosi “producers”) tutte le cose più assurde che possono venire in mente ad un gruppo di maschi appassionati di auto e ubriachi al pub. Domande come

“Secondo te sulle prime due miglia è più veloce una Bugatti Veyron o un caccia Eurofighter?” fino ad oggi patrimonio esclusivo di abbonati a “Quattroruote”, ragazzini cicciotti e ingegneri meccanici, sarebbe rimasta per sempre senza risposta se non fosse stato per Top Gear

https://www.youtube.com/watch?v=7NZ9X9A2efA

Personalmente una delle mie preferite è la sfida fra un Maggiolino e una Porsche 911 nel deserto. Chissenefrega direte voi? Sarei abbastanza d’accordo se non fosse che il Maggiolino in questo caso specifico viene lanciato da un elicottero. Non diventa già molto più interessante?

https://www.youtube.com/watch?v=IyrvfhOI3ls

E sono solo due degli stunt che hanno reso celebre il programma ma l’elenco è lunghissimo ed è solo una delle prerogative del programma.

Non che Top Gear sia nato così. C’è stato un tempo in cui era un programma di motori come tutti gli altri, che forse si distingueva a malapena perché dal 1988 in poi uno conduttori era particolarmente malvestito, persino per un inglese, discretamente brutto ma in grado di farsi scappare qua e la commenti dove l’ironia british virava in una vibrazione di sarcasmo un po’ al di sopra delle righe, Jeremy Clarkson appunto. Il programma andò bene per anni, finché dopo un brusco calo negli ascolti, dovuto all’abbandono di alcuni presentatori, fra cui lo stesso Clarkson, venne chiuso. Top Gear torno in onda un anno dopo, in una versione totalmente rinnovata e pensata da un rientrate Clarkson assieme al producer Andy Wilman: Una versione più estrema, più ricca e articolata, ideata come un vero show e non come la solita sequenza di test drive dove non si assiste a nient’altro che l’elencazione dei dati forniti dalle casa automobilistiche, e si vede un tizio guidare un’auto che non si possederà mai, non proprio il massimo dello spasso. Non so perché, ma non funziona come il porno.

Il nuovo format

I capisaldi del nuovo show erano fondamentalmente tre: fare le cose più improbabili che si possano fare con dei mezzi di trasporto davanti ad una telecamera, creare fra i conduttori un feeling a metà fra la gita scolastica e la sbronza molesta in cui ognuno dei tre ha un ruolo, un carattere e delle prerogative ben definite e ricorrenti, e soprattutto mettere l’auto al centro di un sistema di senso, utilizzare un linguaggio che gioca a più livelli con i significati che questo oggetto idealtipico del ‘900 e ormai un po’ in declino nell’immaginario collettivo: la macchina. Suona un po’ troppo complicato? Mi spiego meglio.

Dare un senso ad un auto

Una Porsche 911 ad esempio per Top Gear non è semplicemente una macchina tedesca che va molto veloce. Nelle parole di Clarkson il suo bagagliaio è grande abbastanza per farci entrare “il gelato fatto con le ossa della persona che avete sconfitto a squash”. E i suoi sedili dietro non hanno praticamente posto per le gambe, quindi “ i vostri bambini per starci dovrebbero essere magri, ma non ne avrete perché essendo proprietari di una Porsche 911 avrete mogli magre”.

Scorretto, ma non del tutto implausibile.

A Clarkson e ai suoi l’ortodossia della comunicazione di massa contemporanea non interessa per nulla, anzi sfidano apertamente l’appiattimento figlio del mantra “non bisogna offendere nessuno” con testi che sembrano spontanei come chiacchiere da bar, ma in realtà sono costruiti con i tempi e le tecniche degli stand up comedian.

Quello che conta è raccontare ciò che sta attorno ad una macchina e siccome il mondo simbolico delle auto è fatto da persone che di solito non passano il loro tempo a studiare le metriche del Petrarca e a discutere di quote rosa, i valori che vengono fuori, le immagini e i significati sono adeguati a quello che si vuole raccontare.

Nel farlo cercano di caratterizzare le auto come fossero persone o situazioni, ad esempio una Citroen Ds 3 è “una Mini che fuma Gauloises”, una Lotus Esprit è “più divertente dell’intera aviazione militare francese che si schianta su una fabbrica di fuochi d’artificio” o ancora “ Se siete clinicamente matti, e con questo intendo se vi svegliate la mattina e pensate di essere una cipolla, la Bmw z3 è l’auto che fa per voi”. Mettetela come volete ma una punchline di questo tipo di sicuro è più stimolante intellettualmente rispetto a “la spider tedesca offre all’interno della sua categoria un ottimo rapporto fra qualità e prezzo”

Che la parola “corretto” ormai non sia mai usata per indicare qualcosa di formalmente compiuto e concreto, quanto piuttosto qualcosa di rispondente a una certa ortodossia morale, non è una questione che interessi Clarkson, il quale preferisce usare gli esplosivi per raccontarvi un mondo in due frasi.

Tornando all’esempio della Porsche, il professionista monomaniacale, assetato di vittorie, siano esse professionali o personali, che gioca a squash con la stessa foga con cui in passato degli eserciti si sono preparati alla guerra, è una delle vittime rituali di Clarkson. Il disprezzo per questo tipo di profilo, che come spesso accade in questi casi non è poi tanto lontano dal suo, è di solito associato ad automobili che i conduttori di Top Gear rispettano ma non amano, non solo Porsche ma anche Audi, Bmw e Mercedes. Auto che agli occhi del trio hanno, salvo rare eccezioni, alcuni vizi capitali: 1. Sono fatte dai tedeschi (per Clarkson, è come se la seconda guerra mondiale fosse finita l’altro ieri) 2. Sono ben costruite sì, ma senz’anima.

Per gente che chiama la propria macchina per nome e per descrivere un cambio sequenziale utilizza termini che attraversano facilmente tre diversi settori disciplinari, le auto devono soprattutto avere un’identità forte, che spesso si traduce anche nell’avere difetti, compensati magari da altre virtù. Quando c’è da umanizzare una cosa state sicuri che il metodo più semplice è descriverla come imperfetta, che venga fatto appositamente o meno. Per questo i tre sono all’unanimità grandi fan delle auto italiane, Alfa Romeo sopra a tutte (la Brera era “Cameron Diaz con le ruote“) e del nostro Paese. Ma questo lo vedremo meglio dopo.

 

Prima ecco gli altri due del trio e gli altri elementi fondamentali del programma

Richard Hammond

 Hammond

 

Detto Hamster “criceto”, presente nella serie sin dalla prima stagione è il belloccio relativo del gruppo, relativo perché non è che assomigli esattamente a Brad Pitt ma è pur sempre meglio degli altri due. Per anni i suoi test hanno avuto una frequenza di camicie aperte sul petto riscontrabile solo in certe pranzi dopo le prime comunioni in alcune regioni d’Italia, di recente però sembra avere imparato la funzione dell’ultimo bottone. È specializzato nelle prove di Lamborghini e fuoristrada oltre che un appassionato di Musclecar, motivo per cui gli altri lo accusa di essere “americano” insulto molto grave nel sistema di valori di Top Gear, e, cosa ancora più grave, è un grande fan della Porsche 911.

 Richard “pensa se questa Chevrolet Camaro va anche bene”

Jeremy “tu sei uno di quelli che vedendo Britney Spears direbbero “pensa se è anche intelligente”

Richard decisamente non è quello con le punchline più affilate e infatti quando ci prova combina casini, come quando fece incazzare l’ambasciatore del Messico con una serie di metafore che utilizzavano stereotipi razziali non particolarmente brillanti per descrivere una supercar prodotta del paese dei sombreri. Ops. La Bbc lo protesse dicendo che l’intento era chiaramente umoristico e che le battute sugli stereotipi nazionali fanno parte della tradizione britannica. Cionondimeno i suoi costrutti sono meno efficaci di quelli dei suoi due soci e quindi è più facile che l’intento comico vada perso.

Secondo Clarkson, Richard è anche il motivo per cui Top Gear ha un pubblico composto al 40% di donne, cosa che non fa mistero di non capire.

“ Si è tutta colpa di Hammond, le donne voglio fare sesso con lui, dio solo sa perché. Ho visto il suo pene ed è semplicemente microscopico, sul serio, è veramente piccolo, si può a fatica definire un uomo. Cosa posso dire… Dovrò vivere con questo peso”

Clarskon a 60minutes Australia a proposito di Hammond.

Hammond è quello incaricato di compiere gli stunt più pericolosi, come raggiungere il Polo Nord con una slitta trainata da cani mentre gli altri si muovono su un fuoristrada – comunque sul ghiaccio, non proprio sicurissimo nemmeno quello. Recentemente è stato abbandonato per giorni in cima a una montagna in Canada, ha gareggiato contro un Red Devil a bordo di un Cayenne, ed era alla guida della Bugatti nella famosa sfida con il Jet Eurofighter. Anni fa uno di questi stunt stava per costargli la vita. Il Dragster con cui stava compiendo una prova di accelerazione in rettilineo si era impennato a 460 km all’ora. È tornato in trasmissione dopo il coma e una riabilitazione durata diversi mesi venendo accolto da Clarkson con queste parole “uno di noi è diventato la principessa Diana”. Nella registrazione si possono distinguere almeno tre fasi diverse nella risata del pubblico (meccanica, scandalizzata, liberatoria) dopo questa battuta.

James May

may

 

James May, detto anche Capitan slow per la sua capacità di perdere ogni sfida di velocità, ha il ruolo del tranquillone del gruppo, quanto a indossare camicie assurde è invece in buona compagnia. È quello che durante i road trip viene puntualmente tamponato e dice “Ouch” o, quando le cose si mettono male “Oh cock”. Al contrario degli altri ha un gusto un estetico non direttamente mutuato da un fusto di Guinnes. Possiede sia una Fiat Panda che una Rolls Royce e una Ferrari ma dice che se fosse costretto a scegliere terrebbe la Fiat, credeteci o no, di sicuro c’è che al lavoro alla Bbc ci andava proprio con il pandino. Il trio è impegnato in uno scherzo continuo ma James è quello che perde un po’ più spesso degli altri, è il tizio che fa cadere il servizio buono mentre tutti ridono. Sulla sua intelligenza rimangono aperte delle domande, nel senso che ogni tanto sembra d’intravvedere nel suo volto un bagliore di sofferenza per il ruolo, altre volte invece è bravissimo a far buon viso a cattivo gioco. Io comunque non mi stupirei se a un certo punto tirasse fuori una motosega. Per questo sospetto che sotto l’incedere da inglese per bene del suo eloquio e i suoi modi affettati si celi un cinicone peggio di Clarkson e che in fondo May sia il più sveglio dei tre, quello con degli interessi che vanno oltre il tipo di scarico che monterà la prossima Ferrari, solo che darlo a vedere deve sembrargli molto inelegante o comunque inutile agli scopi dello show. O forse niente di tutto questo. Di certo è coinvolto in una serie di gag ricorrenti, la più nota delle quali riguarda l’annuncio di mirabolanti news riguardo la Dacia Sandero, il che è ovviamente una contraddizione in termini essendo qualsiasi avvenimento riguardo la Dacia Sandero privo di alcun interesse, per chiunque, su ogni pianeta, in qualsiasi circostanza. Dacia Sandero che poi fu trovata e, distrutta durante lo speciale in Romania, dove viene prodotta.

In genere, dalla Panda in poi, James è quello che si affeziona alle macchine che gli altri non degnerebbero di uno sguardo, ma questo non gli impedisce di testare e apprezzare auto velocissime, come la nuova Ferrari LaFerrari, auto che sfida le leggi della fisica almeno quanto quelle della tautologia, né tanto meno di essere scelto per testare l’ultima versione di Bugatti Veyron e superare i 440 chilometri orari. In rettilineo, ovviamente. La cosa che più di tutte mi ha fatto sospettare qualcosa d’indecifrabile nella sua indole, è stata la scena del ritorno di Richard Hammond dopo l’incidente che gli era costato un lungo coma e mesi di convalescenza. Richard si abbraccia con Jeremy, sta poi per fare lo stesso con James e quello invece gli tende la mano, con tutta l’aria di uno che “non abbraccia i maschi” qualsiasi cosa questo significhi una volta superati i 14 anni.

Indecifrabile.

Lo Stig

Stig

“La f12 è l’unica Ferrari, fra quello ha guidato, che lo Stig acquisterebbe, se solo avesse il concetto di denaro, cosa che ovviamente non ha”

Jeremy

 

All’inizio del programma Clarkson e Wilman non riuscivano a trovare un pilota professionista che fosse anche in grado di dire qualcosa d’intelligente davanti alla telecamera, questione che risolsero con invidiabile pragmatismo decidendosi per uno muto. Nacque così lo Stig, il pilota senza volto (non si leva mai il casco) e senza parola. Originariamente la sua tuta era nera poi l’identità del primo pilota ad indossarla venne svelata da un giornale (si tratta di Perry McCarthy) e dalla terza stagione ci fu un nuovo Stig, questa volta tutto bianco, la cui identità fu protetta con maggiori misure di sicurezza ( lo Stig arriva sul set direttamente bardato con il casco, mangia in una stanza a parte e pochissimi oltre ai tre conduttori conoscono la sua vera identità), quando istruisce alla guida su un circuito gli ospiti che deve istruire per il segmento “star dentro un’utilitaria dal costo ragionevole”, altro classico del programma, pare finga un accento francese. Su questo non c’è certezza perché le sequenze di addestramento non vengono mostrare e le uniche laconiche parole in video dello Stig sono quelle rilasciate ad una giornalista olandese durante un servizio su Top Gear. Nel 2009 venne annunciato da Clarkson che lo Stig si sarebbe rivelato perché “stufo delle speculazioni della stampa che lo descrivevano come un venditore di fotocopie di Bolton”.

Nel programma successivo, lo Stig giuda una Ferrari Fxx sul circuito del programma piazzando un tempo mostruoso, poi una volta in studio si leva il casco rivelandosi come Micheal Schumacher.

Nonostante lo Stig abbia realmente battuto i tempi di ex piloti di formula uno sulla sua pista, quello di Schumacher era uno stunt una tantum. La vera identità del secondo Stig (il primo bianco) fu rivelata da lui stesso l’anno successivo, attraverso autobiografia che la Bbc cercò invano di bloccare in tribunale. Si trattava del pilota Ben Collins, non molto contento di non riuscire a guadagnare quanto i suoi colleghi dall’enorme successo della trasmissione. Per toglierli del tutto il pensiero la Bbc lo licenziò e dando la notizia della causa in corso non confermò ne smentì che si trattasse del vero Stig. Le reazioni comunque furono tipicamente nello stile Top gear, con James May-Captain Slow che scrisse “Ovviamente ora dovrò intraprendere vie legali perché sono stato io lo Stig per diversi anni “

Finché alla fine di uno speciale in medio oriente, conclusosi a Betlemme ,i tre trovarono in una mangiatoia un nuovo baby stig

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All’inizio della stagione successiva, un mese dopo, era già cresciuto e pronto per guidare perché: “Gli Stig crescono molto in fretta

Lo Stig nel programma è generalmente presentato dalla formula “Qualcuno dice che” seguita da due caratteristiche assurde tipo “ha paura delle campane”, “la sua t-shirt preferita ha l’immagine di una t-shirt” o “Da anni produce sperma artificiale benché gli abbiamo chiesto più volte di smettere”. Mentre guida nei “power lap” ascolta in genere musica improbabile e negli special dove deve fare cose come “prendere una metro” si dimostra assolutamente incapace di ogni forma di normalità. Lo Stig sa letteralmente fare solo una cosa: guidare veloce.

Altra caratteristica notoria dello Stig è quella di avere un famiglia molto ampia, costituita esclusivamente da cugini, che i conduttori incontrano durante i loro frequenti viaggi all’estero quando hanno bisogno di un pilota. Il cugino americano è un ciccione, quello vegano è verde, quello tedesco è identico se non per il mullet che gli esce dal casco. Il più famoso dei cugini è però probabilmente quello italiano: Bunga Bunga Stig

italian stig

(Il cugino italiano dello Stig, mentre esce dal motorhome accompagnato dalle sue assistenti)

News

Il segmento news è quello dove i tre seduti su due divani danno le notizie sul mondo delle automobili, non la parte migliore dello show, nonostante abbondi di battute, ma pur sempre meglio del già citato “Star a bordo di auto dal prezzo ragionevole”, che per quanto mi riguarda è un un po’ il punto più basso del programma, con qualche felice eccezione come l’epica sfida fra Jeremy e lo spin doctor di Tony Blair, l’insopportabile Alastair Campbell. Il bello del segmento news è che comunque ogni tanto va totalmente fuori controllo

Sfide, speciali, gare e generiche follie

Oltre ai test drive, alle news, al momento dell’ospite e al defunto “Cool wall” (dove i presentatori facevano classifiche della “figaggine” delle macchine) la componente fondamentale dello show sono le sfide, gli speciali di viaggio, le gare e in generale le follie.

Fatti spontaneamente e su ordine dei “producers” che nessuno ha mai visto ma sono sufficientemente sadici per essere apprezzati da tutti, questi segmenti possono comportare viaggi in regioni remote del mondo, dall’Africa all’India, dalla Cina all’Argentina, spesso con delle limitazioni monetarie sulle macchine utilizzabili (ad esempio: comprare 3 vecchie supercar italiane per meno di 5 mila euro), poi ci sono gli speciali giornalistici sulla storia di una marca (memorabili quelli su Lancia, Saab e Lamborghini), le gare come quelle fra taxi, fra Alfa o Bmw di un determinato periodo o fra ambulanze custom-made

porsche

(la Porsche ambulanza con lo scacciabufali rimovibile di Jeremy).

Alcuni test drive sono sufficientemente assurdi per rientrare in questa categoria, molto noto ad esempio quello del Marauder, un mezzo di derivazione militare di 10 tonnellate di peso  o quello fra un Ranger Rover e un altro veicolo militare in grado di guidarsi da solo. Ma gli esempi che hanno fatto la storia del programma, oltre alla già citata sfida fra il caccia Eurofighter e la Bugatti Veyron, sono la gara a freccette con le auto, effettuata con un gigantesco bersaglio dipinto in fondo a una cava e delle auto sparate con dei cannoni idraulici, l’attraversata della manica a bordo di auto modificate per galleggiare, o fra gli speciali, solo per citarne uno, quello durante il quale in Alabama, nel pieno dell’America più reazionaria e arretrata, i tre andarono in giro con scritto sulle portiere “L’amore fra uomini è ok”, “ Nascar fa schifo” e “Hillary presidente”, venendo presi a sassate da un gruppo di redneck inferociti che li inseguirono per chilometri a bordo di un furgone.

Lo stunt più famoso però è probabilmente quello del tentativo di distruzione di un pick up Toyota, nato secondo Andy Wilman dalla seguente considerazione:

Bei filmati che arrivano dalle zone di guerra del terzo mondo vedi sempre questi pick up Toyota che non si rompono mai, a un certo punto abbiamo pensato che fossero un po’ come gli scarafaggi dopo una guerra nucleare

I tre cercarono in tutti modi di distruggere un pick up Toyota rosso, schiantandolo contro un albero, lasciando alla mercé delle maree, dandogli fuoco e infine piazzandolo sul tetto di un palazzo destinato a una demolizione programmata. Con il solo ausilio di un meccanico che poteva utilizzare esclusivamente utensili base e a cui era stato fatto divieto di sostituire anche un solo pezzo, il Pick up ripartì ogni volta. Alla fine l’indistruttibile Toyota, sopravvissuto a tutti i tentativi di distruzione, venne esposta nello studio dove è rimasta fino a fatti che hanno coinvolto Jeremy Clarkson

Jeremy

Tutto quello che abbiamo visto fino ad ora è molto bello interessante e ma non sarebbe mai stato il successo planetario che è stato se non fosse stato per Jeremy Clarkson.

clarckson tweet

(Non il tipo di tweet che farebbe Fabio Fazio )

Dei tre presentatori Jeremy è il più caustico, quello che bulleggia serialmente gli altri due e che non fa mistero di essere il più scorretto politicamente, i suoi soci sono infatti sostanzialmente d’accordo su tutto, ma il più delle volte solo tacitamente. Co-ideatore del format e proprietario fino al 2012 di parte dei diritti, li ha poi ceduti in alla Bbc sia per soldi (molti soldi) che per arginare il crescente risentimento di May e Hammond che fino a quel momento in un certo senso erano sui dipendenti.

Conservatore di fatto anche se mai dichiarato esplicitamente, vicino di casa del primo ministro Cameron, ha in odio soprattutto ambientalisti, ciclisti ed autovelox. Appassionato di storie di guerra ha inserito più volte mezzi e uomini dell’esercito inglese nelle puntate di Top Gear, ed è autore anche di diversi documentari a tema non automobilistico, principalmente riguardo storia e tecnologia.

“Esagerato” è comunque l’aggettivo che descrive meglio Clarkson quando parla di auto, anche se il suo superare gli argini è quasi sempre accompagnato da una certa ironia. Un esempio di grandeur comica clarksoniana è “il test drive più costoso della storia” fatto alla Bmw x6, una prova durante la quale dall’Inghilterra si recò in Australia per controllare che il meccanismo d’apertura dello sportellino sul cruscotto funzionasse anche nell’altro emisfero (funzionava), in Spagna per testare le sospensioni, sulle alpi per la tenuta sulla neve, a Bangkok per cercare la metafora conclusiva della prova, e infine alle Barbados per capire se era meglio spendere i soldi del prezzo dell’x6 per una lunga vacanza ai tropici. Risposta: Sì, era meglio.

Di certo non progressista, ma più individualista e libertario che Tory, Clarkson è il terrore dei produttori di auto nei confronti dei quali non ha alcun timore reverenziale, è in grado di distruggere un auto come di esaltarla e qualche volta di fare entrambe le cose, come con la Lexus Lfa che ha inizialmente disprezzato salvo poi eleggerla recentemente “auto migliore di sempre”. I suoi giudizi sullo stesso modello possono cambiare negli anni a seconda di quello che nel frattempo è successo nell’industria automobilistica (idee che sembravano geniali possono essersi dimostrate pessime e viceversa) o perché magari l’auto in questione ora è nelle sue mani e non in quelle dei May o di Hammond. La dinamica del programma vuole infatti che i tre insultino sempre l’auto degli altri, ma anche questo è uno stratagemma narrativo per parlare delle caratteristiche delle auto senza annoiare il pubblico. Tenete sempre a mente l’alternativa con le palline da tennis nel bagagliaio.

Dal canto suo Clarkson, nonostante la platea di spettatori sterminata, ha sempre ripetuto di non avere alcun reale potere d’influenzare il pubblico, citando il caso della Ford Orion, che nonostante un test drive disastroso a sua opera, divenne comunque un best seller in Inghilterra. Le case produttrici non sono sempre d’accordo e ogni tanto mettono il veto su di lui (la Porsche ha fornito alcune auto al programma solo a patto che a guidarle non fosse Clarkson) e poco prima della sospensione la sfida fra le tre hypercar Ferrari LaFerrari, McLaren p1 e Porsche 918 spider è stata ostacolata dalle richieste di Mclaren e Ferrari che chiedevano condizioni molto particolari per acconsentire al suo svolgimento. Per andare sul sicuro Ferrari aveva anche minacciato di bando a vita chiunque fra i suoi clienti avesse fornito il proprio esemplare a Top Gear per permettergli di realizzare la prova, in altri casi alcune marche hanno fatto direttamente causa dopo dei test particolarmente disastrosi e controversi. Se alcuni temono Clarkson, altri invece lo ringraziano come la Toyota o come, probabilmente, dovrebbero fare i produttori italiani. Dal canto mio apprezzo il programma ma non per questo mi sento chiamato in causa per il fatto di guidare una vecchia Peugeout, una delle marche più disprezzate da Clarkson, quindi capisco il teorema della Ford Orion, anche se certo se lavorassi al marketing della Mercedes ogni volta che una stella a tre punte fa capolino sulla Bbc mi verrebbe un attacco di panico.

Il nazionalismo di Clarkson

Per Clarkson francesi sono “comunisti” perennemente intenti a fumare sigarette e scioperare (ma anche quella che per Top Gear è la peggiore marca di auto del mondo ha fatto la Peugeot 205 gti, un auto che i tre ritengono mitica), ma i suoi veri arci-nemici sono i tedeschi e gli americani (detti anche “United States of Total Paranoia”), benché l’edizione a stelle e strisce di Top Gear, avvincente come una riunione al ministero delle pari opportunità, generi milioni di dollari di introiti per la Bbc. Alla sfida contro i conduttori dell’edizione tedesca di Top Gear, tenutasi in un circuito del Belgio, i presentatori inglesi sono arrivati a bordo di tre Spitfire dell’aeronautica inglese, salvo poi combattere gli avversari nelle solite modalità tendenti al demenziale. Durante uno speciale ambientato in Germania in cui una delle pensate dai sadici producer era riempire le auto dei presentatori con un quartetto di suonatori baveresi in lederhosen, Clarkson salì sul tetto della sua Bmw cercando piuttosto di farsi colpire da un fulmine. Al tempo stesso però una delle sue auto preferite è la Mercedes SLS Roadaster della quale dice

 “Le auto al giorno d’oggi sono così sicure, rifinite, e sono tutte costruite in fabbriche multietniche, prive di cereali e con uno sguardo puntato agli orsi polari ma questa no. Questa è un gigantesco dito medio all’intero concetto degli eco-ismi sostenibili, è appropriata al nostro tempo come un completo elegante ad una raffineria di petrolio, e io adoro tutto questo “

Le auto possono passare tranquillamente sopra le nazionalità. E non solo le auto. La chiave del nazionalismo di Clarkson alla fine è tutta qua, è grossomodo una boutade in cui crede tutto sommato fino a un certo punto, è soprattutto un modo a buon mercato per avere una joke-opportunity, per cui è abbastanza normale che trenta secondi dopo aver parlato male di tedeschi o francesi sia il primo a difendere la superiorità dell’ingegneria automobilistica europea tutta su quella del resto del mondo.

Clarkson e l’Italia

Un gran numero di prove ed speciali di Top Gear sono ambientate nel nostro paese, i tre vecchiacci motorizzati l’hanno girata in lungo e in largo da Bologna a Venezia, dalle Dolomiti a Roma, da Lucca e Lecce, trasmettendo i suoi paesaggi e suoi monumenti in tutto il mondo, d’altrocanto, se non ci pensiamo noi, almeno che lo faccia qualcuno. L’ammirazione per l’Italia si estende anche alle sue auto, specie quelle in grado di generare emozioni come Ferrari, Lambo, Maserati, Alfa e Lancia. Auto spesso imperfette che però a Clarkson e i suoi piacciono proprio per questo, il che ovviamente è anche un cliché, una cosa che a Top Gear sono troppo svegli per non capire, e infatti hanno auto-stigmatizzato nella prova in cui James May ha tentato di recensire un’Alfa 156 senza usare frasi fatte su quanto cuore hanno le auto italiane. Ogni volta che cadeva in luogo comune doveva mettere dei soldi in un salvadanaio fissato sul cruscotto, salvadanaio che alla fine della prova, nonostante le buone intenzioni, era ovviamente pieno. Durante la puntata italiana di Clarkson and the others, un programma di molti anni fa in cui Clarkson andava in giro per diversi paesi europei a parlare di auto e di costumi altrui, ci sono almeno due momenti notevoli: il primo è l’intervista dall’avvocato Agnelli, il secondo è l’incontro in cima alla pista del Lingotto a Torino con Pininfarina, Giugiaro e Bertone per parlare dell’eccellenza italiana del design, in cui la Torino di quegli anni viene definita Silicon Valley delle auto. Altri tempi, a cui sarebbero seguita la cessione di molte aziende del distretto a investitori stranieri. Clarkson talvolta crede nell’industria italiana anche più degli italiani se è vero che ha dedicato una lunga, e bellissima, prova alla Discovolante, l’elaborazione di un’alfa 8c fatta dalla carrozzeria lombarda Touring Superleggera, un’azienda i cui portavoce hanno recentemente dichiarato al Corriere della sera di non riuscire a soddisfare tutte le richieste perché non riesce a trovare battilastra.

Le polemiche

Nel controverso speciale ambientato nella terra del fuoco, la troupe ha rischiato un altro linciaggio perché la targa della Porsche 928 che guidava Clarkson sembrava contenere un riferimento alla guerra delle Falkland che vide opposte proprio l’Inghilterra e l’Argentina. La sequenza finale dello speciale prevedeva una partita di calcio-automobilistico fra la squadra dei padroni di casa e quella inglese, una sfida mai realizzata perché un nutrito gruppo di veterani di guerra argentini ha prima minacciato poi aggredito a sassate la carovana dello staff tecnico del programma.

In seguito un giudice argentino ha stabilito che la provocazione era intenzionale mentre un’indagine interna alla Bbc ha invece assolto i produttori del programma, avallando la versione secondo la quale si è trattata di pura casualità, come attraverso il suo sito Top gear aveva sostenuto da sempre.

Il programma che ha fatto dell’esagerazione, dell’irriverenza e dell’incapacità di adeguarsi alle richieste della correttezza politica del suo tempo il marchio di fabbrica è da tempo al centro delle polemiche, che appaiono in molti casi infondate e rigettate con classe, ma non sempre.

Nella prima categoria ricade sicuramente la risposta data a chi aveva criticato Clarkson e James May per aver bevuto Gin mentre guidavano un fuoristrada Toyota sul ghiaccio dell’artico.

 “Tecnicamente attraversavamo un’enorme distesa di acqua ghiacciata non stavamo guidando, ma navigando”

Oppure la famosa battuta sui camionisti

Fare il camionista è un lavoro duro: cambia marcia, cambia marcia, cambia marcia, controlla gli specchietti, uccidi una prostituta, cambia marcia, cambia, uccidi, è un sacco di sforzo in una giornata”

è, molto semplicemente, una battuta.

Nella seconda si piazzano invece la filastrocca razzista mugugnata da Clarkson durante una prova, cosa per la quale poi si è scusato in video, dicendo che si trattava di un take che non doveva andare in onda.

L’ultima controversia, quella che ha portato alla sospensione del programma e alla definitiva messa al bando di Clarkson dalla Bbc è stata la rissa con il producer Oisin Tymon. Inizialmente imputata al fatto che Clarkson non avrebbe trovato ad attenderlo, dopo una lunga giornata di riprese, del cibo caldo, secondo fonti vicine al conduttore sarebbe invece stata causata da un mix di tensioni produttive, dai rapporti degradati con la rete, e dal nervosismo per una serie di problemi di salute.

Ad ogni modo Clarkson ha riconosciuto le sue colpe ma né questo, né il milione di  firme raccolte fra i telespettarori ( tra cui, lo confesso, anche la mia) e portate presso la sede della Bbc da un fan travestito da Stig, sono serviti ad evitargli la cacciata.

carro armato

(per la cronaca il carro armato si è rotto a pochi metri dalla sede della Bbc)

Ironia della sorte il rinnovo del contratto che era inizialmente stato fissato pochi giorni dopo la rissa sarebbe dovuto essere probabilmente quello per l’ultimo biennio o al massimo triennio dello show, perché i tre presentatori ritenevano che a quel punto sarebbero stati troppo vecchi per andare ancora in giro a fare i cazzoni a bordo di automobili improbabili.

La tv che va contro le regole della tv

“Ogni settimana c’è qualcuno che si lamenta e chiede la fine di top gear. Ma se incominci ad ascoltare quelli che si lamentano, finisci col fare qualcosa di annacquato e noioso. Quindi dobbiamo praticamente ignorare chiunque per poter fare lo show che abbiamo in mente di fare”

Jeremy Clarkson

Top Gear è un caso di tv di successo che va contro molte delle regole della tv contemporanea e in questo c’è molto del fascino che suscita. Per prima cosa è uno show fatto con un cast riunito attorno a una sola caratteristica: è fatto di autentici conoscitori ed entusiasti della materia di cui tratta.

Quando le statistiche mostrarono che una parte importante del pubblico era giovane e cool era ai piani alti della Bbc provarono a sostituire Richard Hammond con un presentatore effettivamente giovane e cool, non cioè un tappetto un po’ meno vecchio degli altri e con la camicia aperta. Gli altri però gli fecero quadrato attorno e lo difesero. Lo stesso accadde quando la rete si accorse che quasi metà del pubblico del programma era composto da donne e incominciò a ventilare l’ipotesi di inserire una conduttrice donna ma anche in questo caso, forti dei risultati, il team di Top Gear indicò loro la porta.

Il motivo per cui Top Gear funziona, al di là del budget infinito, dell’incredibile qualità delle immagini, delle battute e del ritmo, è che si ha sempre la sensazione di essere di fronte a qualcosa di autentico. Un’autenticità che non si crea con uno specchiarsi basico e banale dello spettatore nel segmento sociale che vede ricostruito artificialmente sullo schermo: giovane modaiolo con giovane modaiolo, donna con donna, come se gli esseri umani fossero incapaci di appassionarsi ad altro che a versioni stereotipate e imbellettate di sé stessi, uno dei grandi capisaldi del pensiero televisivo dominante, appoggiato in questo dalla spirito lottizzante del politically correct, non importa quante siano le eccezioni di successo.

In un mondo ossessionato dal correttezza politica, in special modo nella cultura anglosassone, Clarkson, May e Hammond ottengono l’interesse e l’affetto degli spettatori parlando delle cose come sono, non come dovrebbero essere, e nel farlo mettono tutto se stessi, fino talvolta a rischiare la vita nelle riprese più spericolate.

È proprio questo che gli porta ad avere 350 milioni di spettatori in tutto il mondo.

Alle volte le cose sono più semplici di quanto si direbbe.

Il pilota in rivolta

Se uno di noi morisse durante le riprese siamo d’accordo che dopo l’annuncio “Jeremy è morto durante le riprese di questo servizio” debba essere “anyway…”. Qualcosa come: Ad ogni modo (anyway) le nuova Vauxall Cectra…

Nessuno dei protagonisti è morto ma c’è da chiedersi a questo punto se i tre boys approderanno ad un nuovo canale, magari un broadcast americano come Netflix o Amazon, quanto rimarrà della loro alchimia quasi illegale e del politicamente scorretto nella patria mondiale del controllo militare delle parole: gli Stati Uniti.

Se invece finiranno su un canale tradizionale come potranno permettersi la stessa libertà con produttori di auto che saranno inserzionisti della rete per milioni di euro?

Paradossalmente per il vecchio reazionario Jeremy Clarkson quella Bbc che lo sopportava malvolentieri era forse il miglior ambiente possibile, ma ora la convivenza sembra finita per sempre.

Per il momento le uniche certezze è che fuori dalla Bbc il programma non potrà chiamarsi Top Gear, e che Clarkson non starà a lungo con le mani in mano

“Top gear è morto, anyway…”

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“LASCIA STARE LA GALLINA” (Bompiani) è in libreria http://www.danielerielli.it/cosa-ce-dentro-il-mio-nuovo-libro-lascia-stare-la-gallina-bompiani/ http://www.danielerielli.it/cosa-ce-dentro-il-mio-nuovo-libro-lascia-stare-la-gallina-bompiani/#comments Tue, 02 Jun 2015 15:20:08 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=2640 Continua a leggere]]> Schermata 2015-05-06 alle 11.45.43

(2° edizione agosto 2015)

Arguto come un racconto di Flaiano, vorticoso come un trip di Irvine Welsh

 Style-Corriere della Sera

Un film in attesa di essere girato

La Repubblica

 Un romanzo italiano tra i migliori degli ultimi anni

Wired

Dopo “La Ferocia” di Nicola Lagioia un nuovo romanzo accende i riflettori sulla parte di società meridionale in cui bene e male sono indistinguibili

Il Giornale

Un affresco morale sul potere nell’italia di oggi

Venerdì di Repubblica

Un racconto a più voci che non dà tregua. Un linguaggio brillante, che elettrizza, inchioda alla lettura. Una scrittura serrata, ironica in maniera sorprendente

Io Donna- Corriere della sera

Un vero professionista della parola scritta (…) Violenza tanta, energia moltissima. Sesso, droga, e dance hall.

Quotidiano di Lecce

Non è solo un thriller ma anche una commedia tragicomica sulle impudenze (e gli impuniti) della scalata al potere.

DonnaModerna

Un libro totem che ogni salentino dovrebbe leggere

Lecce Prima

Un breaking bad salentino formato cartaceo

Finzioni

“Lascia stare la gallina” è nella decina finalista del

Premio-sila-49

LASCIA STARE LA GALLINA è in tutte le librerie e su:

Amazon

Ibs

Feltrinelli

Tour di presentazione #gallinaovunque

GALLINAOVUNQUE

#gallinaovunque

Prossime date:

30.08 Ostuni- Ostuni pop Caffè frida ore 20.30

04.09 Treviso – HOME Festival

Date passate

Torino 17 maggio- h 15. 00 Stand Ibs.it – Salone del libro Host: Madaski ( Africa unite)

Milano 26 maggio h. 18. 30  Santeria. Host: Marco Alfieri

Prato 27 maggio h. 18  Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci. Incontro per la serie Changes “Da inchieste a storie: il futuro del giornalismo” Host: David Allegranti

Firenze 3 giugno Feltrinelli P.zza della repubblica h.18.30 host Mario Cristiani

Bologna 5 giugno Feltrinelli due torri h 18 host Ivano Porpora

Roma 10 giugno h 19.30 Giufà host Gipi

Milano 13 giugno h.18.30 Open ( questa non è una presentazione del mio libro ma parlerò assieme ad Andrea Girolami del suo di libro, che è molto bello anche se non ha una gallina in copertina e non succedono cose turpi)

Bolzano 18 giugno h.19 Pippo stage host: Fabio Gobbato

Trento 19 giugno h 18 Bookique Trento feat Anansi

Lecce 27 giugno Feltrinelli

Cosenza 28 luglio Libreria Mondadori  (premio sila 49)

Gubbio – Doc Fest 9 agosto

Torre dell’Orso (le) 11 Agosto La Casaccia

San Cataldo (le) 18 Agosto Lido York

 

per richieste di organizzazione di presentazioni o incontri   quitthedoner@mail.com

 

IMG_2661(Torre dell’Orso. Uno dei luoghi del romanzo)

 

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“Hotel immagine” di Simone Donati e un po’ anche mio http://www.danielerielli.it/hotel-immagine-di-simone-donati-e-un-po-anche-mio/ http://www.danielerielli.it/hotel-immagine-di-simone-donati-e-un-po-anche-mio/#comments Mon, 21 Sep 2015 11:22:57 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=3464 Continua a leggere]]>  

I nomi collettivi servono a far confusione. “Popolo, pubblico… “Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri

E. Flaiano

Qualche tempo fa ricevetti un email di un fotografo che mi chiedeva di scrivere postfazione e didascalie per un libro di foto sull’Italia. Si chiamava Simone Donati e lavorava per Der Spiegel Le Monde, Newsweek , Internazionale e l’Espresso e soprattutto era molto bravo, per cui gli dissi di sì.

Mercoledì 23  alle ore 21 io e Simone saremo alla Fabbrica del vapore a Milano a presentare quello che ne è venuto fuori.

Il lavoro di Simone per questa raccolta ruota attorno ad alcuni luoghi d’Italia dove l’immagine si fonde con la fede, la massa con l’identità il tricolore con una serie di cose di cui pubblicamente tendiamo a vergognarci ma che poi, per dire, ubriacandoci a cena con dei tedeschi finiremmo probabilmente per difendere, almeno un po’ o almeno alcune.

Schermata 2015-09-21 alle 13.15.09

(questa ad esempio no)

Il suo sguardo si posa su comizi elettorali, trasmissioni televisive del mattino, gran premi di moto, concerti di cantanti melodici, ritiri del Napoli in Trentino, selezioni per reality, musei delle cere sulla vita di Padre Pio, ritrovi di nostalgici fascisti a Predappio, il temibile festival di San Remo dove ho scoperto esiste una statua di Mike Buongiorno, raduni oceani per veggenti in ottimi rapporti con la Madonna.

Schermata 2015-09-21 alle 13.12.04

(Un mio vecchio amico ritratto da Simone mentre mima la democrazia diretta)

Oggi quelle foto corredate dai commenti presi dalle pagine fb nate attorno a quegli eventi, dei miei commenti ai commenti e di una postfazione sempre colpevolmente mia, sono state riunite in Hotel Immagine un libro da collezione tirato in 750 copie. Dopo l’uscita siamo finiti anche sul New York Times

 

INYT (1)

(prova fotografica del Ny times che ho esibito ai parenti )

Le copie in tutto sono  750 di cui buona parte sono già andate via, ma potete ancora provare ad accaparrarvi una delle rimanenti  qui e se state a Milano se vi va ci si vede mercoledì.

 

 

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“L’esercito con gli occhiali a specchio” è il nuovo singolo degli Africa Unite http://www.danielerielli.it/lesercito-con-gli-occhiali-a-specchio-e-il-nuovo-singolo-degli-africa-unite/ http://www.danielerielli.it/lesercito-con-gli-occhiali-a-specchio-e-il-nuovo-singolo-degli-africa-unite/#comments Mon, 30 Mar 2015 11:06:20 +0000 http://www.danielerielli.it/?p=2574 Continua a leggere]]>

“‘L’esercito con gli occhiali a specchio” è il nuovo singolo degli Africa Unite, liberamente ispirato al mio omonimo reportage reportage per Linkiesta poi ripreso su Quitaly.

Forse è la prima volta che un reportage diventa una canzone, non lo so con certezza, ma di sicuro il mio cameo sotto la doccia rimarrà negli annali.

Grazie a Mada, Alex, Braga e Francesca.

 

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