Al ricevimento nella Casa del presidente, Scott Stossel, il direttore dell’Atlantic, dedica la parte centrale del suo breve discorso al programma di giornalismo investigativo di cui faccio parte. Dice che alcuni colleghi sono arrivati lì, al centro per artisti di Banff, nell’omonimo parco naturale nello dell’Alberta, Canada, da molto lontano. Durante questo passaggio dirige per un momento lo sguardo, seguito subito da altre persone, verso di me, unico rappresentante della vecchia Europa nella stanza e soprattutto faro di autentica e sincera ineleganza in mezzo a una platea di abbienti canadesi in giacca e cravatta. Le Adidas che indosso sono aggravate dall’italianità del mio inglese, un accento che innalza tragicamente le aspettative in fatto di abbigliamento, privandomi senza appello di quel salvacondotto che una diversità culturale meno specifica mi avrebbe offerto. Non sarebbe stato male, ad esempio, provenire da una tribù di pescatori polinesiani usi a vestirsi di soli tatuaggi. Invece niente, decenni e decenni d’italiani in grisaglia mi spogliano dello scudo di ogni correttezza politica, il che in Canada è una condizione non facile da raggiungere, ma non mettete limite al talento.
Il peccato originale è stato quello di prendere troppo sul serio il paragrafo sul dress code contenuto all’interno delle dettagliatissime informazioni pre-arrivo inviate via mail dal centro, una sorta di manuale di comportamento per ogni esigenza/complicazione/interazione possibile durante la permanenza in Canada. Un malloppo in grado di coprire ogni aspetto dello scibile umano, dai corsi di yoga che si tengono nella grande palestra con annessa piscina, ai numeri della consulenza psicologica qualora uno si ritrovasse ad avere bisogno di un analista durante la permanenza. E questo zibaldone della vita artistica assistita canadese è stato molto chiaro, quasi perentorio: “Abbigliamento informale”, diceva, e così, fiducioso nella proverbiale affidabilità anglosassone e timoroso di fare la figura del primitivo rimasto bloccato nell’austero canone estetico del Novecento, sono partito da Fiumicino con ai piedi delle Stan Smith e in valigia solo degli scarponi da montagna. Sono anche l’unico del mio programma al ricevimento, perché via mail mi è stato chiesto se per caso non mi andava di incontrare i Green, l’anziana coppia di mecenati che nello specifico aveva finanziato la mia permanenza quassù. Così mi sono ritrovato a deflettere gli sguardi dalle scarpe e dal maglione da Fantozzi in gita in val Gardena e a pensare a una tattica di smarcamento rapido e indolore per arrivare a Calgary entro le 20 di questa sera, pena fallimento dell’operazione che ho pazientemente organizzato da ben prima di atterrare in terra canadese.
Alle 18.05, grazie a un indegno passo del granchio indifferente, sono fuori dalla Casa del presidente, diretto verso Virgil – il mio braccio destro recentemente nominato all’interno de “l’operazione” – che ha già tirato fuori il truck dal parcheggio. Virgil è un canadese cinquantenne abbastanza idealtipico, alto più di un metro e novanta, piazzato sia di spalle che di pancia, barba lunga e occhialini tondi, assomiglia vagamente ad un orso hippie. Nato in Canada, è cresciuto in Texas con dieci fra fratelli e sorelle, il che lo ha reso espertissimo di giochi di società e di carte e pronto a organizzare feste di stampo famigliare-scoutistico a ogni occasione. Dopo 48 ore, per esempio, si era già procurato le chiavi della cantina della palazzina dove alloggiavamo e andava in giro a dire che dentro c’era un tavolo enorme, veramente enorme, un tavolo talmente grande che bisognava assolutamente trovare un gioco da fare tutti assieme su quella sterminata superficie di legno. Virgil non è solo un giornalista d’inchiesta; in Canada, dove è tornato a vivere, è noto anche come whistleblower per una vicenda riguardante la gestione dei fondi della Croce Rossa canadese durante la ricostruzione dopo lo tsunami in Indonesia, un’operazione a cui aveva partecipato direttamente come delegato della ong. Si tratta di un affare enorme, diversi miliardi di dollari, soldi che, ha sostenuto in un documentario realizzato dopo essere fuoriuscito dall’organizzazione, sono in larga parte scomparsi sui conti di contractor privi di scrupoli che per realizzare i lavori avrebbero poi usato della forza lavoro ridotta in schiavitù.
Tutti i protagonisti del programma di giornalismo investigativo lì a Banff erano autori di storie forti, ognuno aveva documentato la sua dose d’ingiustizie, di assurdità, d’inefficienze, qualcuno aveva coperto anche morti sospette, brutalità poliziesche, soprattutto. Dal canto mio, la storia che avevo portato era quella della surreale malagestione dell’epidemia di Xylella, una vicenda che non conteneva violenze ma aveva gli originali toni – almeno a queste latitudini – della commedia dell’assurdo delle vicende italiane. Rispetto a quelli di tutti gli altri, la storia di Virgil era oggettivamente di un’altra magnitudo, eppure non c’era stato un singolo momento in cui l’avesse fatto pesare.
Tre o quattro giorni prima del ricevimento alla Casa del presidente l’avevo intercettato sulle scale e trascinato al bar, determinato a insegnargli il concetto di aperitivo. Sembra una cosa semplice, ma in realtà non è un’idea facilissima da comunicare a un canadese che, come la maggior parte dei canadesi, è abituato a cenare alle 5. 30 di pomeriggio. Per lo scambio culturale avevo scelto il MacLab, il bar più riuscito del centro, un locale con un arredamento minimale che ammicca agli anni Sessanta e un’ampia vetrata sulla valle da cui era facile vedere passeggiare a poca distanza dei cerbiatti o degli alci – per inciso gli alci sono enormi, la mia misurazione personale di un grosso esemplare è circa 2/3 di un elefante del Bioparco di Roma. Mentre mi prodigavo in spiegazioni tecniche (no, non puoi mangiare adesso, è proprio questo il punto. Sì, lo so che sono le 6) una delle almeno tre televisioni che trasmettevano sport a qualsiasi ora del giorno come in un qualsiasi altro bar del Nordamerica, aveva mandato in onda una gigantesca rissa fra i giocatori di due squadre di baseball. Il mio commento era stato: “Finalmente il baseball è interessante” e Virgil aveva riso. Si può dire che in quel momento abbiamo incominciato a diventare amici.
In generale Virgil parla con un’affascinante combinazione di estrema tranquillità ed estremo acume, un tono di voce spia di un carattere che sembra mantenere a distanza di sicurezza sia la cupa disperazione sia l’entusiasmo automatico. Sarebbero tratti interessanti di per sé ma diventano notevoli in una persona che alla fine dei conti è pur sempre un idealista, uno che per approfondire le ricerche in Indonesia sulla vicenda della ong, non disponendo di ricchezze famigliari, si è ipotecato la casa. Come cittadino del paese della retorica non ero del tutto preparato a incontrare una persona di quel tipo. Ogni volta che sento storie estreme di giornalisti freelance in Italia mi torna in mente un’intervista a una giovane auto-inviatasi a sue spese in zone di guerra che diceva sostanzialmente che sì, era una vitaccia, spendeva più di quello che guadagnava, vedeva morire un sacco di gente, ma almeno era sempre lei quella con le storie migliori da raccontare alle cene con gli amici. Insomma, Virgil era per me un animale nuovo. L’operazione, dicevamo. (Continua a leggere su Il Foglio)